Callianetto, il borgo che diede un volto al Piemonte
La vera storia di Gianduja
di Mario Bocchio
Tra colline disegnate dalla mano del tempo e filari di vigne che sussurrano storie antiche, Callianetto custodisce un segreto che pochi conoscono e che merita di essere raccontato con lo stupore che si deve alle favole vere. È qui, in questa frazione sospesa tra l’Astigiano e la leggenda, che nacque Gianduja: maschera, simbolo, anima del Piemonte.
Callianetto non è che un puntino sulle mappe, un luogo che si potrebbe oltrepassare in silenzio se non fosse per quella strana atmosfera che aleggia tra le sue case in pietra e le persiane scolorite dal sole. Non è solo un paese: è un’eco. È l’eco di un’epoca in cui i burattinai viaggiavano con carichi di sogni nei sacchi e in cui un personaggio di legno poteva diventare voce del popolo.
E proprio in una notte di fine Settecento, raccontano i vecchi, quando la luna era piena e il vino buono, due artisti sfuggiti al fumo delle rivoluzioni francesi si fermarono qui, in cerca di rifugio e pane. I loro nomi erano Giovanni Battista Sales e Gioachino Bellone. Torino li aveva stancati, Genova li aveva rifiutati. Callianetto li accolse. E fu qui che, tra le mura semplici di una cascina di campagna, accadde la magia.
Nel tepore del Ciabot ‘d Gianduja — che oggi si può ancora visitare — Sales e Bellone diedero forma a un nuovo personaggio. Non era più il vecchio “Gironi” delle prime farse genovesi, troppo carico di echi giacobini e polemici. No, ciò che volevano ora era qualcosa di più vicino alla gente, qualcosa che sapesse di terra e di mosto, di saggezza contadina e bonaria ironia.
Osservarono un uomo del posto, un certo “Giuan dla douja”, sempre pronto a offrire un boccale di vino in allegria, e ne tracciarono le linee. Lo immaginarono con un cappello a tricorno, giacca marrone bordata di rosso, gilet giallo come il grano maturo, pantaloni verdi come i prati in primavera. Nacque così Gianduja, che da lì a poco avrebbe conquistato il cuore dei piemontesi.
Ma non era solo una maschera. Gianduja era il Piemonte fatto persona: contadino, onesto, astuto senza malizia, sempre pronto a ridere ma anche a difendere i suoi diritti con un calice in mano e la verità sulle labbra.
A distanza di più di due secoli, Callianetto rivendica con orgoglio questa eredità. Passeggiando per il paese, ci si imbatte nel Ciabot, oggi proprietà comunale e restaurato con cura, piccolo e rustico, quasi a voler restare com’era, come a dire: “Qui è cominciato tutto”. Le pareti raccontano senza parlare, i travi scricchiolano di memoria. Ogni primavera, nel periodo del carnevale, la comunità si anima per ricordare il proprio figlio di legno e di spirito.
Tajarin, brasati e dolci al gianduja — quel cioccolato alle nocciole che, ironia della sorte, porta lo stesso nome della maschera, anche se per altri motivi storici -: mangiare a Callianetto è un’esperienza che va oltre il gusto: è un rito. Si sorseggia Barbera mentre hai la sensazione di essere osservato da Gianduja, con il suo sorriso sornione e il bicchiere sempre pieno, come a dire: “Siediti, forestiero, e ascolta questa storia”.
E allora vien da chiedersi: che cos’è davvero Gianduja? Solo un pupazzo di legno diventato simbolo? Solo un travestimento carnevalesco? Forse. Ma forse è anche molto di più. È la coscienza popolare di una terra, è la voce sommessa e ironica con cui i piemontesi hanno raccontato sé stessi in secoli di silenzi e lavoro.
Callianetto lo sa. Lo sa ogni pietra del suo selciato, ogni anziano seduto al bar che, tra una briscola e un bicchiere, è ancora capace di raccontare la storia di quel giorno in cui Sales bussò alla porta, affamato e infreddolito, e ne uscì con un personaggio che avrebbe fatto ridere e pensare generazioni intere.