Carlo Leva

Carlo Leva, lo scenografo di Sergio Leone

Il costumista piemontese aveva lavorato in oltre 120 produzioni in tutto il mondo

Crpiemonte
4 min readApr 8, 2020

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di Mario Bocchio

È morto nel 2020, a 90 anni, Carlo Leva, scenografo e costumista che ha lavorato a lungo per il regista Sergio Leone. Viveva a Bergamasco, un piccolo paese in provincia di Alessandria al confine con l’Astigiano, dove era nato.

Con l’inseparabile basco in testa

“Per sempre nei cuori di tutti noi! Grazie Carlo!”, ha scritto il Comune. Nel Palazzo Marchionale, l’edificio seicentesco di Bergamasco, aveva creato una collezione di oggetti raccolti in cinquant’ anni di lavoro nel mondo del cinema. Scenografo, ha lavorato in lungometraggi che hanno fatto la storia dal dopoguerra a oggi. Aveva iniziato la carriera come assistente del torinese Gino Brosio per “Sodoma e Gomorra” (1961): importante il sodalizio con Sergio Leone nel filone western (“Per qualche dollaro in più”; “Il buono, il brutto, il cattivo”; “C’era una volta il West”).

Insieme a Sergio Leone

Come titolare del reparto scenografia della Titanus, Carlo Leva ha lavorato in oltre 120 produzioni in tutto il mondo. Tra le pellicole più famose “Il tormento e l’estasi” (1965) di Carol Reed, “Il gatto a nove code” (1971) di Dario Argento, “Piedone lo sbirro” (1974) di Steno. Per la Rai ha curato le scene di molti spettacoli e sceneggiati.

Leva ha contribuito a scrivere una pagina importante del cinema

“Mi chiamo Carlo Leva. Sono un vecchio scenografo, sono nato a Bergamasco ed ho vissuto la mia infanzia, come molti da queste parti, tra la Liguria ed il Piemonte. Ho vissuto la mia infanzia a Genova perché mio padre era impiegato del Comune di Genova. La nostra estrazione è contadina e piccolo borghese, per cui la mia vita si è articolata tra Genova e le radici piemontesi di Bergamasco. Purtroppo ero dipendente dai miei, per cui non ho potuto capire subito cosa avrei fatto nella vita ed ho dovuto accontentarli e frequentare l’Istituto Tecnico. Certo il mio pallino era quello di fare il cinema, sin da bambino avevo in testa quest’idea, per cui, dopo aver accontentato i miei, feci da privatista il Liceo Artistico e vinsi, per fortuna, una borsa di studio che mi portò a Roma per realizzare quello che era il mio disegno di sempre, cioè entrare a far parte del mondo del cinema […]. L’impatto vero e proprio con il cinema nasce dal fatto di aver fatto della pubblicità. Alcuni dirigenti della Titanus mi videro mentre lavoravo — ed ero uno sgobbone -: ad un certo punto mi chiamarono nel loro ufficio e mi chiesero se volevo far parte della grande famiglia della Titanus per girare un film poi diventato famoso, Sodoma e Gomorra, nel deserto del Marocco.

Il celebre film “Il buono, il brutto, il cattivo”

Robert Aldrich, il regista del film, volle per tutte le scene d’azione un regista italiano e pretese che fosse Sergio Leone perché egli era già reduce da collaborazioni in grossi film americani come Ben Hur: la famosa corsa delle bighe è tutta di Leone. Sergio Leone, che durante le riprese mi vedeva sgobbare in mezzo ad una folla indemoniata composta da 2400 persone, una sera, mentre sorseggiavamo un tè, dopo una giornata di lavoro fuori dal nostro albergo di Marrakech, mi chiese se vivevo a Roma. “Si, ormai sono un cineasta romano a tutti gli effetti”, gli risposi. “Bene, bene, quando tornamo a Roma” mi disse “me te compro” […]. Con Sergio Leone ho avuto un rapporto di grande amicizia e stima. Mi ricordo che avevamo la stessa età […], forse la stessa estrazione sociale. Entrambi amavamo la letteratura americana, avevamo visto la guerra con gli occhi di ragazzi di 10–15 anni. Poi io gli parlavo qualche volta del cinema che mi aveva fatto conoscere mio nonno, il cinema della Fert di Torino, dove il padre di Sergio Leone era stato un famoso regista del muto. Ci ha legato probabilmente anche questa radice comune nel cinema torinese. […] Credo che in ogni uomo ci sia un fondo di amore per la propria Itaca, per cui questa terra è l’isola da cui sono partito e non m’è sembrato giusto andare a vivere in America accettando le proposte che mi fecero dopo trentacinque o quarant’anni di lavoro nel cinema italiano. Da un lato mi dispiace non aver accettato l’invito, dall’altro sento che ho seguito una legge naturale per cui — come dice la canzone genovese — “Che possa posare le ossa dove mia madre me le ha donate”.

(nel documentario Carlo Leva Scenografo. Appunti per un documentario di Lucia Roggero, 2002)

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