
Due luoghi simbolo del dramma dell’esodo
La presenza di profughi giuliano-dalmati nella provincia di Alessandria si lega soprattutto alle vicende del Villaggio del Cristo ad Alessandria e della Caserma Passalacqua di Tortona
a cura di Mario Bocchio
Il dramma e il dolore scaturiti dalle vicende del Confine Orientale, in Piemonte ha determinato due luoghi-simbolo.

La legge 137 del 1952 che riserva ai profughi l’assegnazione di abitazioni di edilizia popolare, ha i suoi effetti anche sul territorio alessandrino sul quale, al pari di quanto accade in altre località italiane, vengono edificati alloggi di carattere “popolare e popolarissimo”[Archivio Comunale di Alessandria]. Infatti il 25 luglio dello stesso anno, i rappresentanti delle principali istituzioni cittadine interessate dal provvedimento (Sindaco, Presidente dell’Istituto Autonomo delle Case Popolari e Dirigenti dell’Ufficio Tecnico Comunale), si riuniscono allo scopo di individuare “le aree e tutte le altre modalità della costruzione degli alloggi” che, come si legge in una nota diramata dall’Agenzia Territoriale della Casa (A.T.C.) di Alessandria, deve “avvenire sollecitamente” [Archivio Comunale di Alessandria]. A tale proposito vengono formate delle apposite commissioni che, dopo vari passaggi, individuano nel quartiere Cristo la porzione di territorio idoneo ad ospitare i nuovi fabbricati. Si tratta di un’area situata ai margini del tessuto urbano cittadino, non lontano dal complesso delle Casermette di via Acqui, utilizzate, fin dagli anni del primo dopoguerra, in parte come sede della Scuola di Polizia e in parte come ricoveri di fortuna per qualche profugo giuliano e per “gli emigrati provenienti dal sud Italia e dal Veneto” [G. Calcagno, 2006]. Il progetto, approvato il 31 agosto del 1953, prevede inizialmente la costruzione di centotrenta appartamenti da un vano, ai quali se ne aggiungono altri centotrenta composti da due vani e sette di dimensioni più grandi con unità immobiliari di tre e quattro stanze. Un programma edilizio che, in fase di realizzazione, subisce un deciso ridimensionamento, come dimostra lo stato attuale del Villaggio Profughi oggi composto da duecentosette abitazioni di cui “cinque con tre camere più servizi, diciassette con due camere più servizi e centottantacinque con una camera e servizi” [E. Miletto, 2007], assegnate ai profughi, in virtù dello stato lavorativo, a partire dal 1959.

La presenza di profughi giuliano-dalmati nella provincia di Alessandria si lega soprattutto alle vicende della Caserma Passalacqua di Tortona, nei cui locali sorge un grande centro di raccolta profughi che vede transitare tra il 1946 e la fine degli anni Sessanta, almeno 20.000 profughi provenienti non solo dall’Istria, da Fiume, dalla Dalmazia, ma anche dai territori della Grecia, della Libia e dell’Africa.

Costruita alla fine dell’Ottocento ed utilizzata fino al termine del secondo conflitto mondiale come struttura militare, a partire dal 1946 la Caserma Giuseppe Passalacqua di Tortona inizia la sua lunga attività di centro raccolta profughi.
I primi profughi arrivati a popolare le grandi stanze dell’edificio, costituito da quattro fabbricati disposti intorno a un ampio cortile centrale, provengono dalla Grecia (precisamente dalle zone di Atene, Patrasso e dal Dodecanneso). Con loro giungono nuclei di cittadini italiani ritornati dalla Libia e dai territori dell’Africa italiana e un folto gruppo di esuli giuliano-dalmati, circa 1.100 unità. Secondo i dati raccolti dal direttore del Centro Raccolta Profughi torinese delle Casermette, recatosi in visita nel 1948 in alcuni tra i principali centri di raccolta profughi del nord Italia, la Caserma Passalacqua, “attrezzata per 1.550 persone” ospita a tale data “1.440 profughi” [ASCT, Fondo ECA]. Una cifra simile a quella che si riscontra nella seconda metà degli anni Cinquanta quando, come si legge in una relazione stilata dal inviata dal direttore del campo al sindaco della città il 19 agosto 1955, “la forza presente al campo di Tortona si aggira sulle 1.450 persone”. [Archivio Storico Città di Tortona]
La caserma Passalacqua si presenta come una delle strutture più ampie all’interno dell’intero panorama dei centri di raccolta profughi italiani: si calcola infatti che siano stati almeno 20.000 i profughi che tra il 1946 e la fine degli anni Sessanta abbiano varcato i cancelli della struttura derthonina.

A fare da sfondo alla loro permanenza in campo ci sono, qui come altrove, la promiscuità, la mancanza di condizioni igieniche adeguate e una quotidianità vissuta in grandi camerate dove interi nuclei familiari vivono ammassati gli uni accanto agli altri inizialmente separati soltanto da semplici coperte, sostituite, verso la fine degli anni Cinquanta, da pareti in muratura.
Un’esistenza scandita da una fragilità estrema, cui si cerca di far fronte dotando il campo di servizi in grado di garantire agli ospiti lo svolgimento di attività essenziali: un asilo istituito e gestito direttamente dalle suore che operano all’interno del campo, una scuola elementare, formata da otto classi, che affida a “maestri pagati dall’amministrazione scolastica” l’istruzione dei bambini e alla direzione del campo la fornitura “di materiale didattico, libri, quaderni e cancelleria” [ASCT, Fondo ECA], un ufficio postale, un posto di polizia, una piccola cappella, uno spaccio di generi alimentari, un’infermeria, un locale destinato ad attività ricreative e di svago e cucine che si occupano della distribuzione del vitto. A Tortona sono infatti attive tre cucine, ognuna delle quali è chiamata a soddisfare le esigenze dei principali nuclei di profughi ospitati: la cucina giuliana si occupa dunque di confezionare i pasti per i giuliano-dalmati, quella greca per i greci e quella ‘mista’ per gli altri ospiti del campo. I generi alimentari sono distribuiti dal Magazzino viveri ai rappresentanti dei singoli gruppi di profughi addetti alle cucine in modo che, come si legge nella relazione stilata dal direttore delle Casermette di Torino, “ogni gruppo si confeziona il vitto secondo i propri gusti e consuetudini”. [ASCT, Fondo ECA]. La pratica rimane attiva per alcuni anni, per poi lasciare spazio alla distribuzione di alimenti in natura, alla cui cucina provvedono direttamente i profughi nelle singole camerate. Generi alimentari forniti direttamente dalla direzione del centro, protagonista di numerosi interventi in materia assistenziale che, iniziati negli anni di apertura, continuano costantemente fino alla chiusura del campo. Provvedimenti di cui si fa quasi sempre carico il locale Ente Comunale di Assistenza e che offrono ai profughi generi di prima necessità, oggetti di uso comune, vestiario e forniture alimentari, come dimostra, ad esempio, una lettera inviata dal direttore dell’ECA al prefetto di Alessandria in data 1 settembre 1955. Il documento evidenzia infatti come, “dopo aver esaminato l’elenco nominativo degli indigenti bisognosi segnalati dal direttore del Campo”, l’ECA si sia incaricata di distribuire, nei mesi di luglio e agosto, “buoni viveri per un valore complessivo di Lire 500.000”, dei quali usufruiscono “circa 160 famiglie (450 persone)”, sollevando però la protesta degli altri ospiti del campo che, come si legge nel documento, “si recano presso la direzione prospettando le loro misere condizioni e chiedendo di essere inclusi nell’elenco dei beneficiati” [Archivio Storico Città di Tortona]

Con la costruzione degli alloggi di edilizia popolare non solo a Tortona, ma anche nelle vicine Alessandria e Novara, e la loro assegnazione a consistenti nuclei di profughi residenti nel campo, la Caserma Passalacqua conosce, a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, un sensibile ridimensionamento delle presenze. Uno spopolamento che coincide, tra il 1959 e il 1963, con un mutamento della composizione degli ospiti, costituiti in gran parte da cittadini italiani provenienti dalla Tunisia e dall’Algeria, spinti a rientrare in patria dai mutamenti politici e statuali che in quegli anni sconvolgono paesi nei quali sono insediati da generazioni. E’ l’ultima grande ondata che precede la definitiva chiusura del campo, avvenuta intorno ai primi mesi del 1970.
Alcune testimonianze
[Da Udine] siamo andati a Tortona. [L’abbiamo scelta] sapendo che in Alta Italia c’era più possibilità di lavoro; ecco perché mio papà ha scelto Tortona. A Tortona c’era un campo profughi, c’erano i cameroni divisi dalle tende — tende nere, quelle dell’esercito — e allora in uno spiazzo [grande] così, era diviso da delle tende. C’era un corridoio e ogni famiglia aveva uno spazio, e sentivi la famiglia vicina, tutti i rumori che questi facevano: le gride, le parentele, le amicizie, eccetera. Ed era tutta gente nostra, no… Si parlava il dialetto veneto, molto simile al veneziano o al triestino, si distingue un po’ ma è veneto, proprio. [Il campo] io me lo ricordo poco, perché …Almeno, questa cosa succede per diversi… Non so, come voler cancellare, come non voler sapere del passato, e succede per diverse famiglie. Cioè, cancellare la memoria, e per tanti è successo questo. Per il campo profughi io non ricordo tanto, ricordo poco. [Ricordo che] c’era questa promiscuità, i bambini correvano e si divertivano, c’era all’interno un’infermeria e quelli che potevano uscire perché avevano un lavoro o andavano a scuola [uscivano], mentre gli altri non potevano uscire e rimanevano all’interno.

A Tortona eravamo divisi con le coperte… Era enorme, c’era un’ala enorme, era una caserma dei militari e allora c’erano cameroni grossi, ed era tutto diviso con le coperte. Eravamo divisi con le coperte. Ma la vita era allegra, era sempre allegra perché siccome noi eravamo a mezz’ala, ci hanno dato un padiglione, e questo padiglione l’abbiamo diviso ognuno con le coperte. Eravamo poi come una famiglia lì: gli uomini si aggiustavano e andavano a lavorare nei campi — mio marito è andato a lavorare nei campi a prendere il grano, perché era settembre/ottobre — per portare a casa due soldini, e poi ci davano 150 Lire al giorno, e con quello ci dovevamo aggiustare, anche a cucinare da soli. E poi c’era all’interno, la cooperativa, che se non arrivavi coi soldini, avevi un libretto che ti segnava. Per dire, io sono arrivata a spendere le 300 Lire che mi davano, ne avevo spese 350, e allora ti segnava e poi quando veniva l’altro mese si aggiustavano i negozi con chi comprava. I negozi erano dentro al campo, ma poi potevamo uscire, potevamo andare via e fare tutto, eravamo liberi. Cioè ognuno si aggiustava come poteva. [Nel campo] il bagno era quello dei militari, alla turca. Poi c’erano enormi, enormi, enormi lavandini, ma enormi! Avranno avuto venti spine che andava l’acqua, e lì si lavava la roba. E invece quando dovevamo fare la doccia, si portava il mastelletto, si scaldava l’acqua e ci lavavamo. Non c’era doccia, non c’era niente. Ci aggiustavamo con le ma stellette.

E’ stata dura, è stata dura… Sembravamo quelli con la lebbra! A Tortona i primi anni son stati duri. Eh, ci schivavano… Sono profughi, chissà che gente [sono]… Il piemontese e anche il tortonese era un po’ sulle sue, anche i primi tempi qua a Torino. Neh, sti napuli… Ancora ancora [noi] veneti eravamo considerati un po’ meglio, ma i primi tempi era dura, mi creda. E anche a Tortona sa, man mano, ci siamo integrati. Ci è voluto un po’ di anni, perché io poi andavo a cucire, queste persone ti conoscevano com’eri ci hanno voluto poi bene: io per alcuni anni ho anche avuto un rapporto bello, tute le volte che andavo a Tortona, andavo a trovare [la mia ex datrice di lavoro]. Io andavo a cucire, e man mano che si andava avanti ci hanno conosciuto, sa gente che andava a fare i lavori in casa, gente che andava in campagna, gente [che andava a fare] qualsiasi lavoro che c’era da fare, e allora han capito che gente siamo. Perché in principio era un po’ dura, cioè perché credevamo che eravamo fascisti.
Il campo era una caserma: ti davano un camerone, che noi avevamo diviso sempre con delle coperte. Allora, da una parte dormivamo tutti noi [figli], dall’altra c’era il letto di mia mamma e mio papà, e in mezzo facevamo da cucina. E i bagni, di caserma, comuni! Proprio comuni, quelli proprio da caserma, con il lavandino lungo che sembrava l’abbeveratoio di animali, quelli erano i bagni. Poi lì c’era un’infermeria — che c’era il dottore che veniva se avevi bisogno — cera la cappella, c’era la polizia che controllavi se entravi o se uscivi. Che lì eravamo misti: c’erano greci, di tutto eravamo! E si andava d’accordo, abbiamo vissuto bene.

I primi anni quando siamo arrivati lì, c’era le cucine che facevano da mangiare, e c’era un’allegria! Eravamo allegri anche, con tutto che vivevamo lì! Io mi ricordo che c’era una casa bassa e un grande salone e si ballava! Guardi, io ero giovane, però era un’allegria, una comunità, stavi bene, non era che tu litigavi, no, no. E difatti, anche lì son nati dei matrimoni. E lì poi ste cucine le hanno tolte, e ci passavano questo sussidio.
C’era questa legge che ci dovevano assumere, e allora questi qua [i tortonesi] non ci potevano vedere, perché dicevano che gli portavamo via il lavoro. Dicevano: ah, siete profughi, siete profughi, siete profughi, c’avete la casa, il lavoro e tutto! Perché noi abbiamo la qualifica di profughi. E le fabbriche si, ti prendevano: chi aveva la qualifica di profugo lo prendevano, se dovevano — metti caso — assumere cinque operai, tra questi doveva esserci dei profughi, per legge.

Per me era umiliante andare con la gamella come al militare. Mi ricordo [che ci davano da mangiare] la fetta di mortadella, un pezzo di pane, come al militare. Infatti quando nella mia vita lavorativa mi dicevano, hai fatto il militare? Io rispondevo si, cinque anni, alla Caserma Pssalacqua a Tortona, e rimanevano tutti di stucco. Allora c’era l’UNRRA, c’era il piano Marshall che ci portava della roba e ci davano qualcosa, non mi ricordo bene cosa ma qualcosa, dei pacchi ce li davano. E anche dei pranzi organizzavano.
Eh, prima di noi penso che lì in Corso Alessandria ci sarà stati i cavalli! Eravamo affamati. Eravamo in un padiglione dove non i’era solo mi, i’era altre cinque o sei persone, dieci, non mi ricordo più quanti ce n’era. E ci davano una coperta alla sera, era così anche a Padova e a Trieste, e alla mattina ce la ritiravano. Poi alla sera, non mi ridavano più la mia, ma me ne davano un’altra che era piena di pidocchi, e li ho presi, che avevo i capelli lunghi e me li han dovuti tagliare. C’era una stanza divisa dalle coperte, che si metteva un filo, un ago di sicurezza e poi l’altro l’apriva. Io poi dopo avevo una cameretta da sola, perché avevo due gemelle, piccole. Perché mi sono sposata in campo con uno che veniva de Tripoli, poi però mio marito è morto nel ’52 che io avevo già le bambine e mi han dato una cameretta mia, autonoma. In campo pensa che ti davano un chilo di legna. E cosa ti scaldi con un chilo di legna, anche verde, che non prendeva. E il mangiare? C’era una crema di piselli che si poteva attaccare anche i manifesti per Tortona, era colla! Veniva come il cemento, neanche con il cacciavite veniva più via! [Si mangiava] quello che passavano: minestrone, poca carne, ma poco, poco. C’era una cucina militare grande e poi dopo ci davano qualcosa in soldi e abbiam dovuti arrangiarci noi, la cucina l’hanno chiusa. Però c’era una cucina mista, cioè c’erano tre cucine: greca, giuliano-dalmata e una che la chiamavano mista. Cioè cucinavano per i greci, per i giuliano dalmati e una per i misti che erano ebrei, libici e tunisini. Cioè era la stessa cucina che cucinava la stessa roba in maniera diversa. C’era un marmittone grosso e si buttava tutto lì dentro, ma ripeto, era la stessa roba cucinata diversamente. Poi c’era Don Remotti, un prete, che prendeva i nostri bambini e li portava al seminario dove il suo vice le dava qualche cosa da mangiare, gli dava un pasto per le feste sempre, a Natale, alla befana, gli dava qualcosa da mangiare ai bambini, che loro non volevano neanche mangiare perché piangevano per i genitori che non avevano da mangiare a casa. Di pacchi arrivava qualcosa alla befana, ma poco.
[Siamo partiti] da Zara a Fiume con un piroscafo. A Fiume siamo stati imbarcati con un camion fino a Trieste, al Silos, e poi da Trieste a Udine. Due notti. E allora lì ci han chiamato in direzione e mio padre ha detto:in Piemonte ho dei parenti, e allora ci han dato Tortona. Il 5 agosto 1947 siamo partiti e l’11 agosto eravamo a Tortona. Siamo stati in campo fino al 1952, cinque anni. Però abbiamo avuto la fortuna di avere una cameretta e ci siamo sistemati da soli. Era un campo grosso, c’erano 2.000 persone.
Fonti e fotografie: Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti”