Emilio Salgari e l’appartamento in corso Casale
Beveva marsala a litri, fumava cento sigarette al giorno e disegnava il vento
Beveva marsala a litri, fumava cento sigarette al giorno e disegnava il vento. Lo faceva con la penna, parola dopo parola. Raccontava eroi, imprese, grandi vendette, avventure, amore, orgoglio, onore. Mappava l’esotico e lo scodellava in cucina. Continenti, oceani, giungle, deserti, vascelli, battaglie, tesori: tutti a portata di mano. E sempre, le gote piene di fantasia, soffio dopo soffio, Emilio Salgari disegnava il vento.
Lo confessò a una ragazza che incontrava sull’argine del Po, in zona Madonna del Pilone, dove Torino comincia a finire. Si chiamava Angiolina, era la figlia ventenne di un produttore di vermouth e liquori. A lei, appassionata di libri e avventura, il papà di Sandokan confidò: “Quand’ero giovane mi piaceva disegnare brigantini, vele, battaglie e tutte le forze invisibili, mi piaceva disegnare il vento…”.
Questo ha fatto per tutta la vita: in ottanta romanzi, centoventi racconti, tre pagine al giorno in bella copia, prigioniero delle sue storie, ha disegnato il vento. Finché il 25 aprile 1911, a 49 anni, ma come fossero ottanta, logoro, la moglie in manicomio, le difficoltà economiche, la cecità incombente, non chiude con incubi e fantasmi, miseria e rabbie: se ne va e non torna più. E così ‘Disegnare il vento’ diventa il titolo di un romanzo su di lui che Einaudi ha mandato in libreria, scritto da Ernesto Ferrero. “Un titolo leggero alla Paul Klee” commenta l’autore “anche se lui era un Doganiere Rousseau, un Ligabue, intendo Antonio, il pittore, non Luciano”.
Uno scrittore mette in romanzo un altro scrittore, inventando ciò che è utile al racconto. Come appunto la figura di Angiolina Comoglio: un’invenzione più vera del vero. “È una sorta di Pietà femminile che lo accompagna nel suo ultimo viaggio” spiega Ferrero. “Vuole capire che cosa passa nella testa di uno scrittore. Attraverso le pagine del suo diario e le voci di personaggi realmente esistiti, moglie, figli, vicini di casa, ristoratori amici, medici, un giornalista napoletano che lo intervista il 31 dicembre 1909, ripercorro l’ultimo periodo della sua vita. Non potevo mancare il centenario”.
In effetti, non poteva. Si interessa a lui da oltre sedici anni, da quando è venuto ad abitare dove Salgari ebbe la sua ultima dimora, a Torino, nello stesso cortile. Apre la finestra e vede la porta delle due stanze e cucina in cui il mancato Capitano di Gran Cabotaggio viveva con moglie, quattro figli, suocera, diciassette gatti, un pugno di canarini, una gallina, uno scoiattolo, una tartaruga, un pappagallo, un’oca di nome Sempronia, la scimmia Peperita e il cane Niombo, che pare parlasse e giocasse a tarocchi. Una vera giungla.
L’appartamento al primo piano di corso Casale 205 è stato a lungo l’abitazione di un postino. Ora è lo studio di un dentista, che di cognome fa Ardore. Sotto le due finestre ci sono una filiale del Credito Piemontese e un’agenzia viaggi. “La legge del contrappasso per uno che sognava il grande viaggio, ma si accontentava di tante piccole partenze, e che svendeva ogni suo scritto, cedeva i libri per un compenso fisso: pochi, maledetti e subito. Per dire il tipo, la sua ingenuità: il secondo romanzo, ‘La Tigre della Malesia’, pubblicato a puntate nel 1883 su ‘La Nuova Arena’ di Verona, gli fu pagato con una torta di pasticceria”.
Viveva abbarbicato al suo tavolino, legato alla penna con cui correva per terre e per mari. È lui, il Tigrotto di Madonna del Pilone, il Corsaro del Po, a essere il personaggio più romanzesco. “Per i giovani i suoi libri erano puro nutrimento fantastico. Diceva di raccontare quello che i lettori volevano, cioè eroi vincenti che sopravvivono immortali nell’avventura senza fine”. Ciò che lui sognava di essere, sin da quando, giornalista, si occupava di cronaca nera, esteri e critica teatrale, e corteggiava la futura moglie Ida, attrice di filodrammatica, scrivendo recensioni lusinghiere e lettere passionali firmate Selvaggio Malese.
“Gli interessano le virtù eroiche degli uomini, non le macchine. Vede nitidamente le false promesse della modernità” annota Ferrero. “Dell’Ottocento ha tutto: le grandi semplificazioni, la curiosità enciclopedica, il delirio classificatorio. Tende a dare della realtà una mappa 1 a 1. Non conosce sfumature, ombre, psicologie. Diventa schiavo del mondo che ha costruito. È un uomo solo. A spingerlo è lo spirito di rivalsa. Scrive per farla vedere a tutti, alle cugine di Venezia, ai colleghi del giornale, ai concittadini. Si sente ignorato, considerato un fenomeno da baraccone. Cerca di farsi accreditare dalla società letteraria, ma fallisce”.
Martedì 25 aprile, esce di casa presto. La moglie è in manicomio da qualche giorno. I figli lo accompagnano sul portone, lui li apostrofa agitando la canna: andate a scuola! Sale sul tram, scende dopo una fermata e s’incammina verso la collina. Finisce in un bosco, si apre il ventre e si taglia la gola. Verso sera lo trova una lavandaia che cerca legna.
Lascia tre lettere. Agli editori: “A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle mantenendo me e la mia famiglia in una continua semimiseria o anche più, vi chiedo solo che pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna”. Ai direttori dei quotidiani: “Aprite una sottoscrizione per togliere dalla miseria i miei quattro figli. Con il mio nome dovevo attendermi ben altra fortuna”. Ai figli: “Sono ormai un vinto, la pazzia di vostra madre mi ha spezzato il cuore. Non vi lascio che 150 lire più un credito di 600. Vi bacio con il cuore sanguinante, il vostro disgraziato padre… Ah, vado a morire nella valle di San Martino. Si troverà il mio cadavere in uno dei burroncelli che conoscete, perché lì andavamo a fare merenda e a raccogliere i fiori”.
Si era ucciso suo padre, si uccideranno anche due figli. Quattro giorni più tardi apre l’Esposizione Internazionale. Celebra il progresso, la tecnica, il lavoro e cinquant’anni di Italia unita. Salgari, che è sempre stato dalla parte dei sogni, aveva già scritto Le meraviglie del Duemila: un incubo. Anticipa l’inquinamento, il terrorismo, la plastica, la televisione e i ritmi di vita da manicomio. Meglio andarsene con Sandokan, Yanez e il Corsaro Nero.
Fonte: Il Venerdì di Repubblica