Omegna vista dall’alpe Mastrolino

Fritz, un olandese sul lago d’Orta

Frequentatore assiduo del Cusio in estate quando, solitamente in agosto, passa le ferie sul lago, ospite di un campeggio nei pressi di Pettenasco, Fritz è davvero un bel tipo

Crpiemonte
6 min readApr 23, 2021

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di Marco Travaglini

E’ stato ribattezzato così perché non si separa mai, nemmeno quando l’afa incolla i vestiti addosso, dal suo cappello di panno verde, alla tirolese, con una lunga piuma di fagiano infilata nella fodera. Si prende delle gran sbornie, esclamando ad alta voce: “Ja, Ja. Kuanto è pello stare in kompagnia di amici italiani che peska in der lake di Orta”. La sua stentata pronuncia, zeppa di errori, lo rende simpatico e lui, consapevole del fatto, tende ad accentuarne il tratto comico, quasi volesse rallegrare la compagnia con il suo slang da mangia-crauti. La sera, di solito, lo si trova in una vecchia osteria con pergola in riva al lago. L’amico Fritz (che in realtà si chiama Walter De Jong e non è tedesco ma olandese, precisamente di Rotterdam) lì si trova a casa propria, dividendo il tavolone sotto il porticato con alcuni amici. Qualche volta stappano una bottiglia di barbera ma più spesso vanno a birra e gazzosa, la mitica panascé, oppure a spuma, ginger, chinotto. Nessuno s’alza dalla sedia barcollando. E quando, assai di rado, fa la sua comparsa l’immancabile aperitivo rosso vermiglio, il Campari, con tre bottigliette bevono in otto.

Il lago d’Orta dalle alture sopra Pettenasco

Per far merenda, Fritz e gli amici vanno in un’altra osteria dalle parti di Agrano, frazione omegnese. Lì opera in cucina la signora Verbena. Anzi, la Verbena dì Pès, soprannome guadagnato sul campo di battaglia, cioè tra i fornelli, sfornando risotti, fritture, filetti e carpioni. Un tempo il ristoro portava un altro nome, che per carità non si cita. La gestione era un vero disastro. “Gnévan fòra i rat che piangévan”, rammenta l’Arturo, da tanto era fatiscente quel locale e pessimo il cibo. Un guaio per uno come lui che quando si mette a tavola è solito esclamare “Staséra staghi ligéer: un brudìn e n’òca”. Poi la musica, con Verbena in cucina, è cambiata e la cuoca non nasconde il piacere di annoverarlo tra i suoi clienti fissi. Un mangione, l’Arturo. Sembra avere il verme solitario. Mangia, mangia e ancora mangia.

Pettenasco sul lago d’Orta (Archivio Distretto Turistico dei Laghi)

E beve come una spugna tanto che Mariolone, marito di Verbena, scuotendo la testa, dice: “Mangià, al mangia; l’è béva c’l’a-sta mia ‘ndré”, mettendo in risalto l’abitudine ad esagerare. Arturo non ascolta nemmeno e, sorseggiato anche il caffè corretto, ormai sazio s’addormenta di botto appoggiando il mento sul petto e ronfando che è un piacere. Da quando è cambiata la gestione, l’osteria è meta di pellegrinaggi culinari e oggetto di un passaparola discreto che coinvolge un po’ tutti: giovani e anziani, grandi personaggi e persone comuni, gente di lago e forestieri. Sarà per il suo locale semplice, quasi disadorno, per l’atmosfera un po’ retrò che si respira, per gli splendidi piatti o per il conto più che onesto a fine pasto, ma è diventata una sosta da non perdere per chiunque ricerchi un locale dove il tempo si è fermato, con la stufa in mezzo alla stanza, con i giocatori di carte a fianco dei commensali, il fumo e le chiacchiere di paese. L’osteria, da noi, è sempre stata un’istituzione, un luogo di ritrovo importante dove trascorrere le ore di riposo dal lavoro. Nei paesi più piccoli dove è anche bottega e rivendita di sale e tabacchi, l’osteria non conosce orari e, al pari della chiesa, è il punto di riferimento della borgata. Un tempo, prima di quella che secondo Ugo ( detto il Pipa), fumatore incallito è diventata “l’epoca del proibizionismo”, l’aroma dei sigari e del trinciato si mischiava ai profumi che giungevano dalla cucina.

Pettenasco

La fretta stava fuori dalla porta, ospite indesiderata. All’osteria ci si trovava per sorridere del niente e, con l’aiuto del vino, per poter credere di uscire dalla miseria e dalle fatiche. La stagione più vera dell’osteria è quella delle nebbie e del gelo. I canti, le bevute, il gioco, le storie, le scommesse e le merende frugali sono ancora oggi i protagonisti di pomeriggi che non terminano se non a notte fonda, dopo interminabili partite a tresette o a scopa. A sentire questi discorsi anche l’amico Fritz tirava un lungo sospiro di nostalgia. E’ un mondo che non conosceva se non in modo parziale e nella versione estiva, più festaiola e un po’ meno vera. All’olandese, al pari dell’osteria, piaceva la vita all’aria aperta, sui monti, alla ricerca di cose buone. Così, girando qua e là ha incontrato Aurelio, diventandone amico. Aurelio vive all’alpe Mastrolino che dista, a piedi, una mezz’ora da Omegna. Arrivarci non è difficile se si segue il sentiero segnalato che parte da via Nobili. Di buon passo, entrati nel bosco, si raggiunge in poco tempo la vasca dove si può ammirare la cascata del Rio S.Rocco, meglio noto come Rial Camin, e da lì, salendo ancora un poco tra i castagni, si sbuca al Mastrolino. Lì regna, monarca assoluto e incontrastato, Aurelio.

Una vecchia osteria

Contadino tenace, vive lì dalla nascita e divide le sue giornate in compagnia di Frida e Mora, le sue due vacche, quattro capre e Fido Bau, il bastardino che gli è fedele. Dal latte munto ricava un formaggio misto che non ha nulla da invidiare alle migliori tome del Mottarone, al punto da riscuotere un buon successo al mercato omegnese del giovedì. Sfalcia il suo prato per fare il fieno secondo le regole: il maggengo a fine maggio, l’agostano a fine luglio e, terzo e ultimo taglio, negli ultimi giorni d’agosto, il terzuolo. Per fare il formaggio usa gli strumenti ereditati dal padre, pure lui alpigiano e casaro. La bacinella dove lasciar riposare il latte munto; la sidèla, il secchio, e ‘l scagn, lo sgabello a tre gambe per mungere le vacche. Usa il cazùl, un mestolo di legno, per scremare a mano la panna, e il pentolone di rame per fare la cagliata che produrrà, come risultato finale, le sue formaggelle. Per raccogliere il fieno usa la scivèra, la gerla, e porta la legna sulle spalle nello stesso modo del padre e del nonno, con la caula.

Vecchi fiaschi

Dai genitori ha ereditato anche la lampada a petrolio che, in casa, illumina i locali mentre nella stalla o nel fienile usa un’altrettanto vecchia lucerna a petrolio. Walter e Aurelio sembrano conoscersi da una vita. Discutono di tutto e quando le parole non riescono a rappresentare per bene ciò che vogliono dirsi ecco che comunicano a gesti. Un alpigiano testardo e un gioviale olandese che, quando quest’ultimo deve ripartire per Rotterdam, s’abbracciano e piangono come se si trattasse del più struggente degli addii e non dell’arrivederci all’anno venturo. C’è chi dice che questa terra tra due laghi aiuta le amicizie. Finiremo tutti col credere che sia vero.

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