
Giorgio e la passione del taglialegna
Giorgio, taglialegna originario di Oltrefiume, una delle frazioni di Baveno, aveva ereditato una carbonaia in una valletta laterale della Vedabia, poco sotto la vetta del Mottarone
di Marco Travaglini
Vestito con l’immancabile “toni”, la tuta blu da operaio, passava buona parte delle giornate a caricare il suo motocarro con i sacchi di juta zeppi di carbone. Le rimanenti le occupava a tagliar legna nei boschi. Una buona parte del carbone che commerciava, e ci teneva a farlo sapere, era “autarchico“, di “produzione propria“.

“Roba di qualità, che la brùsa senza sprechi e accidenti“, diceva con tono fermo e convinto. Con i cugini Pietro e Paolo mandava avanti l’attività della ditta con dedizione e professionalità. I due, conosciuti come i “santi” in ragione del nome e del carattere accomodante e disponibile, erano lavoratori instancabili. Chi li conosceva era pronto a giurare di non averli mai visti con le mani in mano, eccetto le rare volte che s’incontrano al circolo nei pomeriggi di domenica, intenti a farsi una briscola e un “mezzino” di rosso.

Ci mettevano l’anima in quell’attività; soprattutto Pietro, nonostante la menomazione al braccio destro causata dall’incidente subito quando gli era crollata addosso una catasta della legna. La colpa dell’infortunio era stata addebitata al Morello, il mulo di Giacinto. Nell’ampia aia del cascinale in Tranquilla, a nord di Oltrefiume, Giorgio accatastava i tronchi tagliati nei boschi tra Vedabia e l’alpe Scerèa. Dalla catasta i due cugini prelevavano un tronco alla volta per tagliarlo a pezzi con la sega circolare. L’attrezzo, rigorosamente fatto in casa utilizzando un motore di una vecchia “Vespa” Piaggio 150 che forniva la forza motrice alla lama della sega, andava usato con grande cautela. Angelino, un boscaiolo che viveva lì accanto e usava lo stesso sistema, ne sapeva qualcosa essendosi “affettato” ben tre dita della mano destra a causa della distrazione di un attimo.

Giacinto si era recato lì per acquistare un poco di legna. Al suo Morello, pur essendo un mulo e come tale abituato a portar pesi, quel giorno non garbava affatto l’idea di caricarsi quella legna sul basto e si mise a tirar calci all’impazzata. Nonostante i tentativi di imbrigliarla, la bestia menava zoccolate a destra e manca. Fu così che la catasta, colpita dal mulo, rotolò addosso al povero Pietro che si fratturò una spalla. A dispetto dell’essere un “santo” e del suo carattere si sfogò a male parole, chiamando in causa con ira un gran numero di abitanti del paradiso. Incidente a parte, l’attività di Giorgio e dei cugini procedette in modo redditizio. Invecchiando, con amici e conoscenti Giorgio si soffermava spesso a parlare della vita dei boscaioli con un velo di tristezza. Come se, con il tempo, i ricordi anche più duri e aspri s’addolcissero, tradendo nella narrazione una lieve nostalgia.

“La nostra vita era sacrificata perché quello del boscaiolo era un mestiere duro. Ben più duro di com’è oggi . Il taglio dei boschi si faceva in autunno o in primavera. Sceglievamo sul posto gli alberi di alto fusto che, una volta tagliati, li portavamo a valle in spalla o trascinandoli sul sentiero con una corda legata a un cuneo di ferro piantato nel tronco. Quand’eravamo fortunati si poteva usare il palorcio, il filo a sbalzo: una piccola teleferica che faceva scivolare a valle il carico di legna”. Preso dai ricordi Giorgio lasciava scorrere il racconto come un fiume in piena. “Dalle nostre parti ci chiamavano buscarò ; in Ossola e nei boschi della Val Grande , “buratt”. Noi borradori, tagliatori di borre — che è la parte più pregiata del tronco, quella dritta, che serve per il legname da opera — siamo gente a cui il lavoro non ha mai fatto schifo e la fatica non ci spaventa. Polenta e latte al mattino, minestra e una trincata dal fiasco di rosso alla sera. La “benzina” per i muscoli stava tutta lì, in quegli anni di fame e miseria. Ai tempi dei grandi tagli s’andava per squadre di una ventina di boscaioli e un paio di bocìa, di ragazzini che dovevano svolgere lavoretti e piccole commissioni, come fare la spesa o portare gli attrezzi più leggeri. A ognuno di noi , se il taglio era a contratto, toccavano un centinaio di metri quadri di bosco e ci davano un tanto per ogni metro quadrato tagliato. Pensate che i più bravi, in una stagione, riuscivano a lavorare fino a mille quintali di legname”. Rinfrescatasi l’ugola con un fiato di Sizzano, il vino rosso preferito, accompagnava gli interlocutori a vedere gli attrezzi che teneva nel capanno.

L’accetta e la scure, la roncola, la sega (resiga),la piccola zappa (sapìn) e il trentìn, enorme sega lunga cerca due metri. I grandi tagli del legname in Val Grande — tra Verbano e Ossola, nel cuore di quello che oggi è diventato il parco nazionale che tutela l’area selvaggia più estesa dell’Europa occidentale — nella prima metà del ‘900 produssero un pesantissimo disboscamento per il quale fu addirittura costruita una “decauville”, una linea ferroviaria a scartamento ridotto di 4 km nel bel mezzo di quel territorio valle che vedeva, poco oltre la confluenza del Rio Caulì, un ponte sospeso lungo 62 metri ed alto 22 sul torrente per far transitare carrelli e vagoncini che trasportavano le “borre”.

“I tronchi si trasportavano anche grazie alle cioende”,aggiungeva Giorgio. “Adesso non se ne trovano più ma erano degli scivoli di tronchi livellati, una sorta di viadotti di legno a tratti pensili; i tronchi vi scivolavano in inverno quando questi canali artificiali, inondati d’acqua e neve, gelando, facilitavano lo scorrimento del legname. Lungo la cioenda c’erano dei boscaioli come me, impegnati nel tutt’altro che facile compito di disincagliare i tronchi nei punti morti del tracciato. Guardate qua e leggete“.

Metteva sotto il naso di chi l’ascoltava un testo di Don Tullio Bertamini. L’autore, padre rosminiano e storico, docente di materie scientifiche al Collegio Mellerio Rosmini di Domodossola dov’era anche stato preside, era stato uno dei maggiori studiosi dell’Ossola contribuendo alla scoperta e alla tutela del patrimonio culturale dell’area più a nord del Piemonte. Leggendo il testo si apprendeva come “le cioende si svilupparono nel secolo XIX fino ad essere delle vere meraviglie di abilità ed ingegnosità. Ne furono costruite lungo quasi tutte le valli. Quella che da Macugnaga giungeva a Ceppomorelli rimase in funzione una ventina d’anni. Un’altra cioenda restò in funzione per lunghi anni attorno al 1880 lungo la Val Cairasca partendo dall’alpe Veglia e scendendo fino a Varzo, allorché furono fatti i grandi tagli di quell’alpe. Un’altra scendeva dalla Colmine fra le varie frazioni di Varzo ed era in funzione ancora nel primo decennio di questo secolo. Pochissimi ricordano la cioenda che scendeva dalla Val Bognanco”. Ogni occasione veniva sfruttata da Giorgio per offrire gratuitamente interessanti lezioni di storia dei boschi e di chi vi lavorava. Quando era in vena di confidenze raccontava la storia di Cecco. Piccolo, secco come il manico di una scopa, irascibile e pronto alla battuta come tutti i toscani ( era di Pistoia), faceva il “mestiere” con il padre di Giorgio. Non riusciva a stare senza fumare tanto che, a causa di una disattenzione, un giorno rischiò di mandare in cenere il capannone dove lavoravano. Buttò via una cicca ancora accesa su di un mucchietto di segatura bella asciutta che, con una vampata, prese fuoco.

Tra le fiamme Cecco saltava come morso da una tarantola. Si dimenava come un matto, urlando e imprecando. Giorgio e il padre e figlio, con coperte bagnate e secchiate d’acqua, sudarono le proverbiali sette camicie per soffocare l’incendio. Ma si rifecero quando, con un tiro mancino, mischiarono il tabacco di Cecco con la polvere da sparo, pigiandola ben bene nel fornello della sua pipa. Appena avvicinò lo zolfanello acceso al tabacco, aspirando voluttuosamente la pipa, una tremenda fiammata gli bruciò il ciuffo di capelli e le sopracciglia, lasciandolo inebetito con la faccia nera. Le parole che pronunciò nell’occasione si farebbe peccato mortale a scriverle e persino a sfiorarle col pensiero. Nel raccontare la storia Giorgio rideva a crepapelle, appioppando robuste manate sulle spalle di gli era più vicino. Non proprio carezze considerando che le sue erano mani da boscaiolo.