La semina del contadino

I proverbi del Calendario

Rosario Slarghin, un ragazzone alto quasi due metri e “robusto” più di un quintale, era cresciuto in una famiglia “tutta pane e ostie

Crpiemonte
8 min readApr 1, 2021

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di Marco Travaglini

Gli Slarghin, originari del Polesine e più precisamente di Occhiobello, sulla riva sinistra del Po, erano sfollati a Gravellona Toce dopo l’alluvione del 14 novembre del 1951. Un’esperienza tragica, con il fiume gonfio d’acqua melmosa che, per due terzi del suo flusso, ruppe gli argini e invase — allagandole — le campagne circostanzi. Loro, che da braccianti agricoli erano riusciti a comprarsi un fazzoletto di terra da coltivare giù al Malcantone, avevano perso tutto: casa, terra, i loro averi. Già il fatto d’aver salvato la vita era quasi un miracolo. Così, a mani vuote, grazie all’aiuto del prevosto, avevano raggiunto i parenti in riva al Toce, passando da est a ovest, da un fiume all’altro.

L’uva americana

Come accadde a moltissime delle famiglie polesane sfollate non fecero più ritorno in provincia di Rovigo. Rosario, che nelle intenzioni della madre doveva farsi prete e per questo portava quel nome ,era conosciuto da tutti con un nomignolo piuttosto curioso: il “calendario”. E questo perché per ogni stagione, mese o giorno dell’anno aveva un proverbio, eredità della sua famiglia di contadini abituati a scandire così il tempo con la schiena piegata su quel fazzoletto di terra che rendeva loro a malapena di che vivere. Capitava d’incontrarlo a gennaio ed ecco che, salutando, comunicava a tutti che “All’Epifania anche il freddo è un’allegria” e parlava di Sant’Antonio, San Vincenzo (22 gennaio) e Sant’Agnese (21 gennaio), i tre grandi mercanti di neve che coprivano la terra di un soffice manto bianco, preservandola dalle gelate.

Santa Barbara dei fulmini

Intratteneva le massaie che andavano al mercato del mercoledì, informandole sul fatto che le giornate si stavano allungando ma senza fretta. E, verso la fine del mese, Rosario si scaldava gesticolando nello spiegare a chi incontrava che erano i giorni in cui “Sant’Antonio del porcello suona il suo campanello”, un modo colorito per ricordare che l’imminenza dell’apertura del Carnevale era annunciata da Sant’Antonio Abate, suonando vigorosamente il campanello che teneva appeso al suo bastone. A San Faustino, il 15 febbraio, si scatenava: era, secondo lui, il giorno in cui “ il sole arriva su tutti i dossi” e “l’oca sente la primavera e cerca il nido”, rilevando che iniziava il periodo riproduttivo delle oche. Lui ne teneva una mezza dozzina, nello stagno dietro al pollaio dello zio Alvaro.

Sant’Antonio Abate

A tutte aveva dato un nome perché gli facevano compagnia e non gli passava per la testa nemmeno l’idea di doversene separare, nonostante fossero belle in carne e meritevoli di un buon prezzo al mercato di Gravellona o a quelli di Omegna, Pallanza e Intra. Romolo Arrighini, incontrandolo mentre era a passeggio con la moglie, una domenica mattina di febbraio si sentì dire, che chi vuol far morire la moglie la porti al sole di febbraio”. La signora Elvezia s’offese terribilmente per la sfacciataggine di Rosario che, in verità, non voleva oltraggiare la gentildonna né tantomeno il marito: l’ intenzione, del tutto innocente, era di rammentare alla coppia la necessità di prestare attenzione al sole traditore di febbraio che appariva caldo anche se, alla prova dei fatti, la temperatura dell’aria era ancora piuttosto rigida.

Un paniere di castagne

All’addormentarsi dell’inverno e al risveglio della primavera, il “Calendario” si sbizzarriva. Alla Casa del Popolo teneva dei lunghi discorsi, infarcendoli con detti e proverbi sul fatto che “per San Benedetto si distingue il verde dal secco” (ricordando agli avventori come la vegetazione cominciasse a germogliare) o la preoccupazione di veder la pioggia nel giorno della passione e della crocifissione di Gesù Cristo perché “se piove il Venerdì Santo, piove maggio tutto quanto”. Se capitava di non vederlo fino a maggio quando, di mercoledì, metteva in mostra al mercato gli ortaggi che coltivava, il buon uomo recuperava con gli interessi.

Una falce

E partiva a raffica con la litania del “maggio piovoso, anno erboso; maggio asciutto, buono per tutto”, manifestando la preoccupazione che la pioggia di maggio portasse come regalo un gran raccolto d’erbacce, buono a malapena per le bestie. All’opposto, con spirito speranzoso, si augurava un “maggio asciutto: si fa di tutto e c’è grano dappertutto”. Giugno gli dava grattacapi che riassumeva in poche pillole di saggezza: “quando viene la siccità prima di San Giovanni (che cadeva il 24 di quel mese) se ne risente per tutto l’anno”. La preoccupazione derivava dal fatto che tre giorni prima, a San Luigi, il 21 giugno, noto anche come il giorno dell’anno con più ore di luce, iniziavano le prime raccolte. Ma la siccità era solo una delle negatività. L’altra, altrettanto brutta, era data dai temporali che potevano rovinare i raccolti, soprattutto per uno come lui che era scampato all’alluvione.

Una gerla

Ed ecco che il 29 giugno la preghiera era rivolta a San Paolo perché tenesse “lontani saette e tuoni”. A luglio, Rosario si regolava, secondo la tradizione contadina, con Santa Maddalena e Sant’Anna. Le noci erano mature, pronte ad essere battute, mentre scoccava l’ora di tosare le pecore e ci si augurava che il granoturco avesse la pannocchia “altrimenti non fa resa”. Il fatto che non avesse bestiame — a parte le oche — e non coltivasse granturco, poco importava. Contava il principio. La pioggia d’agosto era diversa. Anche a Gravellona, nel campo coltivato in riva al Toce, gli scrosci non destavano allarme. Anzi, era un bene perché “la prima acqua d’agosto rinfresca il bosco”. La fine dell’estate, nel settembre carico di ripensamenti, la pioggia era benedetta il 9 del mese, per San Gorgonio , bagnando le viti d’uva americana (quella che suo padre aveva piantato sotto la “toppia” nella cascina di Alvaro) garantendo una buona vendemmia mentre era maledetta solo cinque giorni dopo, per Santa Croce (il giorno in cui si mangiavano pane e noci) poiché rischiava di rovinare i teneri gherigli, bucandole (“se piöv per Santa Crus sè sbüsa la nus”). Alla fine del mese, per San Michele, le giornate accorciavano al punto che lui e gli altri contadini, rientrando dai campi prima dell’ora di merenda e alzando gli occhi al cielo, scrutavano i brevi voli delle rondini che si preparavano a migrare. In ottobre vendemmiava la sua uva asprigna, imbottigliando quel mosto leggero e saporito che, in caso d’abuso, poteva lasciare un brutto ricordo come accadde anche a Don Domenico che, dopo il terzo bicchiere, dovette rinchiudersi nel bagno della canonica per più di un’ora con la pancia in subbuglio.

Vino e castagne

Quando, in autunno, le giornate si accorciavano e capitava di dover accendere le candele già nel primo pomeriggio ecco Rosario, puntuale come un orologio svizzero, a rammentare che il 15 ottobre, per “santa Terisina, a sà pizza n’a candilina”, dopo seminato per buona parte della giornata. Attività, quest’ultima, che interessava anche il giorno seguente, San Gallo, dove pioggia o bel tempo segnavano uno spartiacque naturale: “se piove per San Gallo, piove fino a Natale” o, viceversa, “se fa bello a San Gallo, dura fino a Natale”. L’11 novembre, il “Calendario” invitava gli amici a festeggiare l’estate di San Martino. Dopo le prime gelate autunnali il tempo solitamente volgeva al bello e l’aria acquistava un piacevole tepore. Anche a Gravellona, nonostante fosse da tempo una cittadina industriale, c’era chi festeggiava il “capodanno contadino” che, tradizionalmente, chiudeva l’annata agraria e ne apriva una nuova. L’oca più grassa (che Rosario comprava da un vicino perché le sue erano sacre) era offerta alla compagnia, accompagnata da castagne e vino americano. Era una gran festa dove l’allegria contagiava i commensali, consentendo al padrone di casa di dar sfoggio alla sua conoscenza di santi e proverbi. In quei giorni il vino è abbastanza maturo per essere messo in bottiglia. E Rosario non lo faceva nemmeno depositare nei fiaschi perché, diceva “per San Martino tutto il mosto è vino”, aggiungendo che “chi pota a San Martino, guadagna pane e vino” e “ se vuoi fare più fieno del tuo vicino concima il prato prima di San Martino”. Gli amici, a quel punto, lo bloccavano un attimo prima che mettesse in moto la sua memoria a macchinetta, inchiodando alle sedie l’uditorio per un tempo indefinito. Dicembre per chi viveva alle falde del Mottarone, del Cerano e del Montorfano, era il mese della neve. Il lago, alla foce del Toce, si faceva grigio e triste mentre l’aria brusca pizzicava la pelle. Rosario invocava Santa Barbara(“liberami dal tuono e dalla saetta, Santa Barbara benedetta”) e aspettava la neve ricordando come a Santa Bibiana (il 2 dicembre) fosse “ancora nella sua tana”, a Santa Lucia (13 dicembre) faceva “un po’ la spia”, sporcando di bianco campi e strade mentre a Natale “verrà senza fallo”. Cosa non sempre vera ma tant’era: la credenza popolare va rispettata anche se talvolta la realtà, infischiandosene, gli volta le spalle. Finiva l’anno e non mancava un brindisi a San Silvestro. Quando dal campanile della parrocchiale di San Pietro scoccavano i dodici rintocchi della mezzanotte, dopo aver mangiato un pugno di lenticchie con mezzo salamino e bevuto un sorso del suo vino, praticava un’usanza appresa dal nonno Giosuè che, in gioventù e per tre anni, aveva fatto il boscaiolo nell’austriaca Stiria. Nel silenzio della cucina di casa, mentre fuori si sentivano i botti dei fuochi d’artificio, fondeva un pezzetto di piombo in un cucchiaio posto al di sopra di una candela. Quando il piombo era fuso lo gettava in un recipiente d’acqua fredda cercando di indovinare quale forma prendesse quel pezzetto nel momento in cui tornava solido. Le figure che apparivano equivalevano ai presagi per l’anno a venire. Lui, ottimista e di animo buono, le interpretava immancabilmente in chiave positiva. E s’addormentava, contento di avviare un nuovo anno, festeggiando Maria Santissima, Madre di Dio.

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