I ragazzini terribili della “sponda magra” del Verbano
In due libri divertenti, “Le avventure di Pierino “ di Piero Chiara e “Il paese dei mezaràt” di Dario Fo, oltre a narrare le gesta degli autori in tenerissima età, alquanto discoli e irrequieti, viene offerta al lettore una straordinaria panoramica su persone e luoghi che s’affacciano sulla “sponda magra” del lago Maggiore
di Marco Travaglini
Nel primo, il protagonista che combina guai tra le bancarelle del mercato di Luino (a cui Pierino poteva partecipare per l’intera giornata perché “la direzione scolastica aveva stabilito la vacanza settimanale al mercoledì, invece che al giovedì come in tutt’Italia, forse più per comodo degli insegnanti che degli scolari”) è il piccolo Chiara che, saltando da un’avventura all’altra, pestifero e inarrestabile, si aggira come un monello per le strade di Luino finché i grandi non si stancano della sua vivacità e lo mandano in collegio.
Ma l’indole non si poteva cambiare : vivace e furbo, allegro, goloso e persino bugiardo all’occorrenza pur di sottrarsi da una punizione. Pierino non poteva arrestare la sua foga e anche tra le mura del collegio impiegò le sue non poche energie per fare ammattire i pur pazienti professori. Ingegnoso come lo sono i bambini particolarmente svegli della sua età, Pierino ( due terze ripetute a suon di bigiate, pur essendo un rampollo di commercianti e quindi destinato agli studi) vive le sue avventure nella città che si affaccia sul del lago, quella Luino dov’era nato “in remote stanze sopra i tetti” nella secentesca casa Zanella e che nel primissimo ‘900 sin presentava come un attivissimo crocevia commerciale tipico delle terre di frontiera, con la Svizzera a pochi passi. In un mercato in cui convergevano venditori onesti e ciarlatani, bancarellai improvvisati e imbonitori, saltimbanchi da quattro soldi e commercianti cittadini con spazi affittati per tutto l’anno, andava in scena una straordinaria commedia umana.
Una curiosità: tra i tanti che nei racconti affollano il mercato compare anche la figura del ricco formaggiaio Berlusconi, che si trova suo malgrado coinvolto in un lancio di forme di gorgonzola, taleggio e grana padano di cui aveva omaggiato tre sorelle zitelle divenute ladre per necessità. Il libro, pubblicato per la prima volta da Mondadori nel 1980, si articola in due parti. Nella prima è il mercato stesso con la sua coralità di coloratissimi personaggi a riempire il palcoscenico, mentre nella seconda (Pierino non farne più!) l’irrequieto protagonista torna a fagocitare la scena, combinandone davvero di tutti i colori, sino a finire in collegio sulla sponda opposta del Verbano, dai salesiani di Intra.
All’anagrafe Piero Chiara era registrato proprio come Pierino e alcuni capitoli come “Non piangere Bertinotti”, “L’evaporazione delle angurie” o “Guerra e pace con i Formentini” sono davvero spassosi. Viceversa, ne “Il paese dei mezaràt“, Dario Fo racconta i luoghi, gli eventi e i personaggi leggendari che hanno segnato la sua infanzia ( e non solo).
Prendendo le mosse dai luoghi natii come Sangiano, “il paese delle meraviglie” tra il lago di Varese e il Maggiore dove il Premio Nobel nacque il 24 marzo del 1926, in una “casa bianca con le finestre grandi” in via IV Novembre, e da quelli dove trascorse l’infanzia come Porto Valtravaglia, Pino Tronzano e Castelveccana, Fo s’avventura nel turbine della memoria restituendoci le imprese del padre ferroviere, le visite in Lomellina al nonno Bristìn, indugiando su episodi di volta in volta teneri e drammatici fino al suo apprendistato all’Accademia di Brera di Milano, agli stratagemmi per campare, al dramma della guerra con il reclutamento forzato e, per finire, con un notevole salto temporale in avanti, i funerali del padre, di quel “Pà Fo” che rappresenta una delle figure centrali di questo romanzo di formazione.
L’originalissimo titolo rimanda al dialetto lombardo, in particolare a quello in uso sul lago Maggiore dove “mezaràt” significa mezzo-topo, pipistrello. Il paese dei mezaràt equivale dunque al paese dei pipistrelli ed è riferito alla gente di Porto Valtravaglia che lavorava soprattutto di notte, svolgendo le mansioni di soffiatori di vetro, pescatori e anche contrabbandieri. Porto Valtravaglia è il paese dove il piccolo Fo cresce e va a scuola( ”il figlio del capostazione era uno di noi e viveva in una villetta sull’angolo di via Borgato, dove ora sorge un palazzo” ricordano gli abitanti del luogo), un luogo magico secondo il grande attore, “un paese in cui i bar e le osterie non chiudevano mai, non avevano neanche le porte, non avevano un ingresso principale. Io sono cresciuto lì, dove c’erano persone che provenivano da tutta Europa, dalla Francia, dalla Germania, dalla Spagna, perfino dall’Oriente, ognuno con una tecnica diversa di soffiatura del vetro“.
In quella babele di lingue e dialetti si inserivano discorsi, dialoghi, favole, lazzi sarcastici e paradossali. È un mondo ormai scomparso, che non esiste più ma per Dario Fo fu di importanza fondamentale. La sua capacità di raccontare — si pensi all’uso di certe pause o dei gesti — proviene direttamente da quel mondo popolato da affabulatori straordinari.
Fu lo stesso Dario Fo a definire la sua infanzia “eccezionale”: “Ho avuto la possibilità di vivere un’infanzia sempre attorno al lago Maggiore, ma cambiando un paese dopo l’altro. Ho frequentato la terza elementare in tre posti diversi, la quarta in due scuole differenti. Poi sono andato a Luino per le scuole medie, a Milano per il liceo di Brera e infine all’Università. Quindi io, figlio di un ferroviere, ero sempre in viaggio. Questo naturalmente ha influito molto sul mio carattere. Credo di essere una persona generosa, e ho imparato non solo da mia madre o da mio padre, ma anche dal clima che mi sono trovato intorno“. Il capitolo finale de “Il paese dei mezaràt“ racconta il funerale del padre Felice il quale prima di morire ( aveva 88 anni) si era preoccupato di ingaggiare una banda che per tutto il tragitto da casa fino al cimitero suonasse le marce dei partigiani delle valli. “ Per ogni valle (sei o sette sul lago Maggiore), infatti, c’era un gruppo di partigiani che creava una propria canzone”, scrive Dario Fo.
Era il 2 gennaio del 1987 e a Luino e avvenne un episodio curioso che tutti i giornali riportarono all’indomani. Il caso volle che le esequie dell’ex capostazione antifascista avvenissero lo stesso giorno dei funerali dello scrittore Piero Chiara, morto a Varese due giorni prima, il 31 dicembre.
La banda che seguiva il feretro del padre di Fo intonò “Bella ciao” e quanti aspettavano la salma di Chiara, che doveva arrivare dal capoluogo di provincia, iniziarono a seguire il corteo funebre di Felice Fo, lasciando vuota la piazza al momento dell’arrivo del feretro del grande narratore luinese.