Il diario di una tragedia
La nostra vita al tempo dell’epidemia
di Mario Bocchio
Il coraggio di parlare ad una piazza vuota ma che probabilmente era affollatissima come mai lo è stata. Quel puntino bianco così fragile ma così forte che prende su di sè l’affanno del mondo e della storia. L’umiltà di sussurrare cosa fare per chi crede, per chi crede a modo suo e anche per chi non crede. Questa di Papa Francesco sarà per sempre l’immagine più vera del mondo ostaggio della pandemia.
Ma ritorna di triste attualità Albert Camus con La Peste. Il tema della malattia percorre senza soluzione di continuità la storia della letteratura occidentale, dove il morbo diviene simbolo della condizione umana. La maggior parte di noi ne ha fatto la conoscenza sui banchi di scuola, parliamo dei Promessi sposi di Alessandro Manzoni. Renzo attraversava le strade di Milano, che erano deserte, la gente era rinchiusa nelle proprie case, ovunque vi era un grande silenzio interrotto a volte dal lamento di qualche moribondo o dal rumore dei carri dei terribili monatti. I monatti erano coloro che portavano via i corpi dei morti. Anche oggi per le vie c’è un grande silenzio. Chi esce lo fa solo per fare la spesa o per recarsi in farmacia. Il lazzaretto era il luogo dove venivano portati gli appestati. Adesso i malati di Covid-19 vengono trasferiti negli ospedali. Sempre a rischio di collassare.
Manzoni ci racconta che ai tempi della peste la gente era molto superstiziosa: si credeva che ci fossero degli untori che ungevano con sostanze malefiche le porte e i muri per diffondere il contagio. Al giorno d’oggi non ci sono queste superstizioni, al contrario c’è molta informazione. Invece, come avveniva allora, la gente si saluta da lontano. Certo, non utilizziamo sfere di metallo traforate contenenti spugne di aceti medicati, nè boccette di argento vivo. Usiamo invece mascherine, guanti in lattice e l’amuchina per disinfettarci o per disinfettare le superfici. Il primo caso in Italia di Covid-19 è stato diagnosticato a Codogno, in Lombardia, venerdì 21 febbraio. Sabato pomeriggio, erano stati registrati circa cinquanta casi. Domenica mattina è arrivata la notizia che il governo lombardo aveva in programma di chiudere le scuole. Il lunedì i bambini non sono tornati a scuola. I compiti venivano inviati tramite il registro elettronico. Bar, discoteche e qualsiasi altro luogo utilizzato per l’intrattenimento pubblico dovevano chiudersi tra le 18 e le 6. Sospeso tutto lo sport giovanile. Le riunioni pubbliche o private non erano più consentite. La messa è stata annullata in città, paesi e villaggi dove non solo la fede ma la parrocchia svolgono un ruolo importante nella vita delle persone. I genitori stavano lottando per far fronte alla cura dei figli, anche perché i nonni, che generalmente si occupano dei bambini, sono quelli che devono prendere le più grandi precauzioni. Alcune madri hanno iniziato a lavorare da casa, altri hanno provato a sincronizzare i turni o hanno lavorato fino a tarda sera.
Per alcuni, la vita non è cambiata molto. Le persone si stavano ancora incontrando e seguendo le linee guida del lavaggio delle mani e salutando senza baciarsi. Tra le cifre dei casi in aumento e le lotte che il sistema sanitario stava affrontando, anche i social media sono stati pieni di positività. C’erano post per aggiornare amici e parenti all’estero che parlavano di giardinaggio, passeggiate e recupero delle pulizie di primavera. La ricaduta economica si stava già avvertendo, per alcuni più gravemente di altri. Quindi sabato 29 marzo, alla sera, le informazioni sul nuovo decreto si sono interrotte. La Lombardia e altre 14 province dell’Italia settentrionale sarebbero state bloccate.
Molti si sono riuniti sui social media per vedere se sarebbe stato effettivamente firmato il decreto. La gente si è precipitata alla Stazione Centrale di Milano per salire sui treni per andare a Sud.
Saremmo stati in blocco? Questo significava che non avremmo potuto andarcene? Per alcuni contava più di altri. Da quel momento anche io non sono più andato in ufficio a Torino, sono rimasto a casa nel cosiddetto lavoro agile. Lavoro comunque a casa, quindi all’inizio la vita sembrava in qualche modo inaspettata, caotica vacanza estiva, solo senza l’estate. “Beh, comunque non è cambiato nulla per te, io invece non posso più andare a giocare a rugby”, un giorno mio figlio mi ha rimbrottato. Ma tutto, in realtà stava cambiando. Tutto era cambiato. Le strade di Alessandria erano molto più tranquille di quanto non sarebbero state in una normale settimana. Erano praticamente vuote. C’erano poche persone, principalmente indaffarate ad andare a fare la spesa.
C’era una notevole assenza di persone anziane. La solitudine tra gli anziani è difficile nel migliore dei casi. La solitudine durante i tempi del coronavirus potrebbe essere paralizzante. Oggi sta gradualmente diventando più chiaro il significato del blocco effettivo. Le persone sono tenute all’autocertificazione o alla certificazione se devono spostarsi. La polizia controlla il movimento dentro e fuori le città. Bar e ristoranti sono chiusi. I supermercati ti controllano la temperatura e controllano il numero di persone che entrano contemporaneamente. Tutto è stato chiuso. Gli hashtag #iostoacasa e #iorestoacasa (“Sto a casa’”) vengono utilizzati per incoraggiare le persone a rimanere a casa ora. Il prete del nostro paese ha inviato ai bambini un messaggio per incoraggiare la consapevolezza della situazione in cui viviamo e il fatto che il nostro comportamento attuale avrà effetti sul futuro. Se mai c’è stato un tempo per le piccole comunità di riunirsi, è ora. Sono tornato in macchina da fare la spesa, sentendo il cambiamento. La vita può cambiare così rapidamente nello spazio di un mese.
Ce lo ricorda anche l’ex giocatore del Toro Alessandro Gazzi, uno degli eroi di Bilbao, oggi capitano dei Grigi di Alessandria, che sul suo blog parla di “tempi incerti”. Giocatore-scrittore, uomo di profonda cultura, Gazzi ci consegna un’analisi che non fa una grinza: “Si vive alla giornata. Inutile programmare, inutile prevedere quando si potrà ritornare a un barlume di normalità. L’inesorabile avvicinarsi di un pericolo microscopico capace di sconquassare il mondo intero ci ha ridotti alle quattro mura di casa nostra nell’arco di pochi giorni. Quattro mura che sono diventate il rifugio domestico dove attendere che tutto si risolva al più presto. Appariva distante quanto bastava qualche settimana fa, il virus. Wuhan 11 milioni di abitanti sembrava un nucleo distinto e circoscritto: poi il centro dell’attenzione si è spostato all’ ospedale Spallanzani. Nel disinteresse spensierato e in taluni casi ironico con uno scatto improvviso la focalizzazione pubblica è giunta in un piccolo paesino del lodigiano, Codogno, poi a Vò Euganeo. Quarantena, polizia, divieti di uscita. Supermercati svuotati dal panico generalizzato. Prime ordinanze, prime mascherine. Successivamente è stato il turno della Lombardia il motore economico italiano diventata zona rossa, oltre ad altre 14 province. Infine l’Italia intera si è riscoperta epicentro di una pandemia che ora si espande nelle altre nazioni, negli altri continenti. Il Covid 19 è diventato un nome familiare, sulla bocca di tutti, al pari degli smartphone di ultima generazione. È acclarato che l’emergenza epocale che stiamo vivendo sia un evento che comprime il nostro stato d’animo, lacerandolo come una abrasione che brucia fastidiosamente, che pulsa e che ha bisogno di tempo per rimarginarsi. Rinchiusi e responsabilizzati a rimanere nel nostro casalingo girovagare attorno alle preoccupazioni sempre quelle e anche di più assistiamo alla televisiva conta dei morti, numeri assoluti che crescono in maniera esponenziale, con il grafico di una curva diventato appuntamento fisso come le dichiarazioni dei virologi che ci confondono nelle loro analisi diverse e a volte contradditorie”
Non ci abitueremo mai all’ululato delle sirene delle ambulanze, perché annunciano il dramma. L’assenza d’altri rumori, brusii o frastuoni fa da cassa di risonanza a questo nefasto urlo dentro l’occhiaia e l’orecchio della città. La sirena strazia l’aria. Contatele, le sirene. E contate i vostri pensieri che inciampano sulla scia di quelle corse all’ospedale. L’immaginario di chi è chiuso in casa prosegue la conta: un altro malato ancora, un altro malato ancora, un altro malato ancora.
Venerdì Santo, l’immagine che voglio consegnare alla nostra storia è anche quella del vescovo di Tortona Vittorio Viola, da solo con la croce per le strade di questa città simbolo di questo ingiusto e assurdo martirio. La settima stazione è stata di fronte all’ospedale. ”Siamo in questo luogo prezioso per la nostra città per far sentire la nostra vicinanza ai fratelli e alle sorelle ammalati — ha detto il vescovo commosso -. A tutti loro diciamo: coraggio, forza, non perdetevi d’animo, non perdete la speranza. Insieme alla fatica della malattia c’è anche la fatica del sentirsi soli. Non siete soli. I vostri cari, anche se non possono starvi accanto, sono con voi in ogni momento, ma anche tutta la città vi è accanto”.
Intanto loro se ne vanno, se ne va un’intera generazione, la stessa che ci ha consegnato il benessere di poterci permettere due automobili, che ci ha permesso di considerare le vacanze come un bene a cui non rinunciare, che ci ha allevato i figli perché erano i nonni permettendo a noi genitori di di poter lavorare, tutti e due.
Se ne va parte di quella generazione che ha ricostruito seriamente l’Italia, in tutti i settori. Se ne è andata schiacciata come mosche, spolmonata, quasi sempre senza nemmeno una carezza, una stretta di mano, una croce tracciata sulla fronte. Senza il pianto di una persona cara al fianco. I cadaveri avvolti in un lenzuolo, privati della dignità dell’ultimo vestito come ultimo gesto di rispetto e di riconoscenza, sono la testimonianza più vera della disgrazia.
Non dobbiamo provare vergogna a piangere. Una, due, dieci e cento lacrime.
Ne siamo certi. Sì, non sarà mai più come prima.