Il fabbro, la gabbia del merlo, la cucina di lago
Giovanni il fabbro, noto a tutti come Giùanin , lo conobbi in gioventù
di Marco Travaglini
Camminava a zig e zag, con passo incerto e le mani in tasca dove teneva sempre due mele, una per parte “ Vùna par tegna via luntan al dùtur e l’altra parché a lè mej veglà drèe”,diceva. Era la sintesi del proverbiale “una mela al giorno leva il medico di torno” con l’aggiunta di un po’ di previdenza al fine di non farsi trovare sprovvisto di cibo quando i morsi della fame reclamavano udienza.
Giùanin era, per certi versi, un artista. Possedeva una straordinaria abilità nel lavorare i metalli e una bacchetta di ferro, nelle sue mani, poteva diventare davvero un oggetto prezioso. Non aveva però il senso della misura. Ricordo che una volta gli venne commissionata la costruzione di una gabbietta per tenerci un merlo. Gli dessero: “Giùanin, una gabbia che non sia troppo piccola perché il merlo deve potersi muovere, ma neanche troppo grande, perché la devo tenere in casa. Ci conto, eh?”. E lui disse di sì. Erano alla Casa del Popolo, seduti uno di fronte all’altro. Ma, come poi s’accorse anche il suo interlocutore, Giùanin quand’era “preso” non connetteva più di tanto.
Quante volte era capitato di vederlo assorto, con il bicchiere in mano. Si metteva seduto al tavolo vicino alla finestra, comandando il primo mezzino. E poi un altro , e un altro ancora. Se si faceva notare che troppo vino non faceva bene alla salute, rispondeva un poco asciutto: “ L’acqua fa marcire anche i pali. Lo dicono tutti i grandi bevitori di vino , e lo dico anch’io. Lo sapete cosa dicono gli svizzeri? L’acqua fa male e il vino fa cantare. E se volete farmi compagnia siete i benvenuti; prendete un bicchiere, beviamo alla nostra salute e cantiamo insieme”. Attaccava con il repertorio di canti alpini, stonando. Tornando alla gabbia del merlo, passarono diverse settimane senza notizie. Il committente, ex villeggiante trasferitosi in via definitiva da Milano al lago Maggiore, iniziò a preoccuparsi quando una mattina lo incrociò per la via.
“Uelà, Giùanin. Incœu pensavì propri a tì. E ma disevi, tra mì e mì: el sarà minga mòrt ? E invece..vardatt’chi , ancamò viv. E la gabbia del merlo? Ti gh’he semper avuu la bravura de fa ma, madonnina cara, al temp te scarligà via”. Il milanese della Bovisa trapiantatosi sulle sponde del Verbano non aveva perso l’abitudine del dialetto meneghino. Giùanin gli disse che aveva avuto dei problemi , che andava di fretta ma che non s’era dimenticato. Gli promise che all’indomani il milanese avrebbe avuto la sua gabbia. Il mattino dopo di buon’ ora il lombardo avvertì il motore di un motocarro che s’arrestava davanti a casa, seguito da un paio di colpi di clacson.
Aperto l’uscio si trovò di fronte il fabbro che gli chiese aiuto per scaricare la “gabbietta”. L’uomo rimase a bocca aperta, interdetto. La gabbietta aveva un diametro di circa due metri ed era alta più di tre. Una voliera, ecco cos’era. Una voliera in piena regola e per più in ferro battuto. “Ma, ma, ma…”, iniziò a balbettare, incredulo. Ma Giùanin non consentì commenti: “Non c’è ma che tenga. Volevate una gabbia per il merlo, no? Eccola, qui. Larga e spaziosa. E siccome ho fatto aspettare un po’ di più, sa che faccio? Gliela regalo”. Scaricata la gabbia, l’artista del ferro mise in moto il suo mezzo e se ne andò, lasciando il milanese come un allocco, senza parole. Giovanni era così. Imprevedibile, generoso, altruista, Non sopportava però che gli si dessero consigli sul lavoro. “ A l’è com’insegnàgh a rubà ai làdar”.
Era come insegnare a rubare ai ladri. Frase che rivolgeva a chi intendeva dare spiegazioni a chi è più esperto di lui. Oppure, bofonchiando tra i denti, sibilava un “ Pastizzée, fà ‘l tò mesté!”, sottolineando come fosse bene che ognuno lavorasse secondo la propria competenza. Poteva permetterselo, essendo un fabbro che “faceva i baffi alle mosche”. Abitava sulla strada tra Loita e Campino, frazioni dell’entroterra di Stresa. Lì aveva anche la sua bottega. L’incudine in ghisa era imponente. “Più è grossa, meglio è”, sentenziava Giùanin. E quella, tra un estremità e l’altra, aveva una lunghezza di quasi due braccia. Di martelli ne aveva un’intera serie. “Per ogni lavorazione esiste il martello ideale. Il peso è proporzionato a quello del pezzo da lavorare. E tutto dipende dall’efficacia che si vuol dare al colpo. Quello lì, ad esempio, è un martello da due chili. Quell’altro là ne pesa quasi tre mentre quello che sta lì pesa solo quattro etti”. Quando parlava del suo mestiere usava un italiano corretto, da professore. “Oggi il ferro battuto viene richiesto soprattutto per arredare le case, dentro e fuori. Lampadari, tavolini, cancelli, intelaiature delle finestre. Ho anche molte richieste di cerniere per mobili”. In un angolo, sotto una larga cappa, c’era la forgia con il suo mantice per soffiare l’aria sul fuoco (“ così si accelera la combustione e le temperature si mantengono più elevate”). Giùanin si aggirava sicuro tra i suoi attrezzi. Sembrava un direttore d’orchestra che disponeva strumenti e strumentisti nel modo migliore per eseguire la sinfonia. Lui, al posto di oboe, violini, violincelli, arpe e percussioni aveva pinze, taglioli, stampi, punzoni, dime, lime, seghe, mole, morse, trance, trapani. Anche ai fornelli della cucina se la cavava bene. Tra le sue passioni c’era la pesca. Che condivideva, quando possibile, con un pescatore professionista delle isole Borromee, ormai pensionato. La specialità di Giùanin era il fritto misto di lago: alborelle in quantità e agoni da friggere infarinati nella padella di ferro; bottatrice, filetti di persico e lavarello, da cuocere a loro volta, impanati con l’uovo, in burro e salvia , aggiungendo un goccio d’olio. Una bontà da leccarsi i baffi. E non finiva qui. Il fabbro amava anche cucinare il pesce in carpione, fritto e poi marinato in aceto, cipolla, alloro. Più raramente ci proponeva il pesce in salsa verde. Erano lavarelli, agoni o salmerini grigliati e marinati in una salsa di prezzemolo, mollica di pane, aceto, capperi, acciughe, aglio, rosso d’uovo, olio d’oliva. D’inverno andava matto per i “missultitt” con la polenta.
Questi agoni essiccati li trovava nella parte alta del lago, tra Ghiffa e Oggebbio. Lì, a dispetto del tempo e delle tradizioni ormai in disuso, alcuni vecchi pescatori trasformavano gli agoni pescati in tarda primavera in missoltini, essiccandoli al sole e conservandoli, strato su strato, con foglie d’alloro e pressati nella missolta, un recipiente chiuso da un coperchio di legno sul quale gravavano dei pesi, così che i missoltini restassero “sotto pressione” per alcuni mesi. Una volta “liberati”, il Giùanin li passava per pochi istanti sulla griglia rovente, irrorandoli d’olio e aceto, per poi servirli sui piatti con larghe fette di polenta abbrustolita e generosi bicchieri di vino rosso. E pazienza se poi, tra tanta abbondanza, eccedeva anche nelle dimensioni delle sue opere.