
Il filo d’acqua del Selvaspessa
Il Selvaspessa nasce dal Mottarone. E’ da lì, dalla “montagna dei milanesi“, che da rigagnolo si fa torrente mano a mano che scende a valle
di Marco Travaglini
La sua strada è un lungo, stretto e tortuoso filo d’acqua corrente che prende forza per caduta fino a spegnersi nel lago a Baveno, tra il Lido e il parco della Villa Fedora . Questa villa fu acquistata nel 1904 da Umberto Giordano, autore dell’Andrea Chènier, della Cena delle Beffe e ,appunto, di Fedora.

E’ lì che per vent’anni, fino al 1924, il compositore visse e lavorò nella pace di questa villa che s’affaccia sul lago Maggiore. Ma a quella villa non sono legati solo ricordi gioiosi. Resta anche l’ombra dei “portatori di morte” dell’Obersturmführer delle SS Herbert Schnelle . A villa Fedora, nel settembre del 1943, era alloggiata la famiglia israelita dei Serman. Era il 17 settembre quando le SS fecero irruzione nella villa , uccidendo quattro dei componenti della famiglia (solo Sofia, assente, si salvò, scampando al massacro).

Prima di allontanarsi, le SS fecero razzia di ogni oggetto di valore. I Serman furono tra le prime vittime dell’odio razziale nazista che, dopo aver colpito all’albergo Sempione di Arona ( ad opera del “cacciatore di teste” nazista Krüger , “il biondo capitano dagli occhi azzurri e gelidi” ), continuò nei giorni successivi a Baveno e sul lago Maggiore fino alla strage degli ebrei dell’Hotel Meina.

Difficile scordarsi i racconti di chi visse in quei luoghi a quel tempo, riannodando i ricordi dei mesi che seguirono le stragi, quando affiorarono dall’acqua del lago i cadaveri con i piedi e le mani legati con il filo spinato.

Tornando al Selvaspessa a far da cornice al corso del torrente ci sono i fitti boschi cedui di latifoglie del Mottarone. Castagno, faggio, betulla, rovere, cerro, frassino, acero, ontano, sorbo, robinia si alternano nei boschi misti che arrivavano a lambire le ultime case di Baveno. Al tempo in cui si era ragazzini era quello il campo di gioco preferito. Pietre scagliate nelle pozze, schizzi d’acqua, arrampicate sui sassi attorno ai quali la corrente disegnava dei piccoli gorghi; scorribande d’inverno quando l’acqua era assente e larghe e più o meno spesse lastre di ghiaccio livellavano gli anfratti, collegando le pietre una con l’altra.

Anche la pesca era ben diversa da quella di lago. Nella corrente ci si misurava con le trote di fiume, più scaltre e smaliziate delle loro consorelle lacustri. Si nascondevano sospettose sotto i sassi e scovarle era non facile impresa. La lenza senza galleggianti e bilanciata con il giusto peso dei piombi andava fatta scorrere seguendo il filo d’acqua, con l’esca di un grasso lombrico, infilato sull’amo a regola d’arte. I lombrichi li trovavamo scavando nella fossa del letame dietro la grande cascina e la stalla delle vacche. Più raramente si utilizzavano le camole del miele fornite dal vecchio Brambilla, un milanese che, finita la guerra, aveva scelto di vivere sul lago dove un tempo aveva cercato scampo dalla città stremata dai bombardamenti.

Aveva due dozzine di arnie e produceva un miele dolcissimo e denso. Nel far sparire quelle larve dai bozzoli biancastri e robusti gli facevamo un favore poiché la “galleria mellonella“, la tarma maggiore della cera, più comunemente chiamata camola del miele, è un lepidottero infestante degli alveari.

E al Brambilla davano un sacco di noie. Così, riempiti i barattoli di lombrichi o camole, pescavamo a striscio nelle pozze fino a quando uno strappo secco ci comunicava la soddisfazione della cattura della preda. Sgusciavano tra la mani, vivaci e ribelli, le fario dal dorso grigio e olivastro e dai fianchi argentei e giallastri. Le macchioline nere e rosso aranciate che punteggiavano la parte superiore del corpo le distinguevano da quelle di lago, dove le macchie erano irregolari e nere. Al Selvaspessa si andava anche a prendere il sole, srotolando gli asciugamani sui sassi più larghi e piani. Oppure, come facevo io d’estate, a leggere. Passavo lì gran parte delle mie vacanze da studente, da luglio a settembre. Il gorgoglìo dell’acqua corrente rappresentava il sottofondo ideale per estraniarsi dal mondo. E’ lì che ho letto i racconti avventurosi di Emilio Salgari, immaginandomi a Mompracem , su un praho nel mar di Malesia, attraversando con i berberi il Rif, gli oceani o le praterie del West. Ho conosciuto nei romanzi di Cesare Pavese le langhe, Santo Stefano Belbo, il mare di Varigotti e il rigore livido dei viali di Torino. Con l’immaginazione ho viaggiato nell’ America di John Steinbeck grazie alle pagine di Furore, Uomini e Topi, la Valle dell’Eden, sostando tra il Vicolo Cannery e Pian della Tortilla. Ho incontrato i moschettieri di Dumas, attraversato le foreste al confine con il Canada insieme all’ultimo dei Mohicani grazie alla guida di Fennimoor Cooper, frequentato pirati e bucanieri all’isola della Tortuga e sognato con Giulio Verne di scendere nel ventre della terra, fuggire con Michele Strogoff, viaggiare verso la luna o navigare ventimila leghe sotto i mari al fianco del capitano Nemo.

Il fiume (la definizione torrente ci pareva riduttiva) mi distraeva dalla lettura sugli alberi per i quali ho sempre avuto una certa predilezione. Era sui rami bassi di un albero da frutto che passavo ore e ore a leggere libri e fumetti quand’ero ospite da mia nonna, lontano dall’acqua del Selvaspessa. Ora di quel mondo fantastico e misterioso resta solo un ricordo. La parte bassa del fiume è completamente stravolta e mai nessuno s’avvia in quella direzione con un asciugamano e un libro sottobraccio. Ed anche la parte a nord è frequentata solo da qualche pescatore. E’ un peccato. Il divertimento di un tempo era basato su cose semplici e ci annoiava di meno, a differenza di oggi dove l’acqua che scorre non accompagna più la fantasia dei ragazzi.