Il mediano morto a Mauthausen
La storia di Vittorio Staccione, un grande calciatore che per motivi politici è stato deportato e ucciso in un campo di sterminio nazista, è una di quelle da non dimenticare
di Alessandro Bruno
Quella di Vittorio Staccione è una storia che deve contribuire a costituire quella memoria condivisa, che ci fa capire l’importanza di preservare la libertà e la democrazia che i nostri avi hanno conquistato, a caro prezzo, nel secolo scorso.
Vittorio, nato a Torino il 9 aprile 1904, è morto a Gusen (un gruppo di tre sottocampi di Mauthausen in Austria) il 16 marzo 1945, poco prima che il campo venisse liberato dai soldati americani.
Il 22 gennaio 2019 è stata posta una pietra d’inciampo a Torino, in via San Donato 27, dove c’era l’abitazione di Vittorio mentre, un anno dopo nel gennaio 2020 in via Pianezza, ne è stata posta un’altra per ricordare dove abitava il fratello di Vittorio, Francesco Staccione.
Francesco era un attivista antifascista ed essendo anche il più anziano dei 6 fratelli, ebbe una grande influenza sulle idee politiche di Vittorio, di stampo socialista: entrambi furono deportati e uccisi a Gusen. Francesco morì qualche giorno dopo il fratello, il 27 marzo.
Per capire meglio questa storia abbiamo raccolto il ricordo del nipote di Vittorio, Federico Molinario, il cui nonno Eugenio detto Andrea, il più giovane dei fratelli Staccione, è stato anch’egli un calciatore importante, nel ruolo di portiere. Giocò, tra le altre, nel Torino (anche nel ‘26-’27) insieme al fratello e nella Juventus (scudetto del ‘34-’35).
“Francesco e Vittorio tenevano i collegamenti tra gli ambienti antifascisti, la fabbrica (Fiat) e i partigiani” ci ha spiegatoMolinario. “L’avvenimento che ha portato alla deportazione e alla morte dei due fratelli è la repressione a seguito degli scioperi del marzo del 1944. Lavoravano nelle fabbriche di Torino e hanno contribuito ad organizzare lo sciopero generale. Purtroppo, a causa di una delazione furono arrestati e lo furono agevolmente perché Vittorio era ben conosciuto. Facilmente individuabile, proprio perché era uno dei giocatori che avevano vinto lo scudetto con il Torino nel campionato 1926-’27. Uno scudetto poi ingiustamente revocato per via del controverso caso Allemandi (la presunta combine nel derby della Mole che costò lo scudetto ai granata)” conclude Molinario, da buon tifoso granata.
“Lo zio Vittorio subì, dovunque si trovò a giocare, degli atti intimidatori - racconta il nipote -. Nel ’26 giocava nel Torino che stava per vincere lo scudetto e, quando in ottobre venne inaugurato lo Stadio Filadelfia disputando una partita con la Roma, pur essendo lo zio un titolarissimo del Torino, non scese in campo. Due giorni prima venne pestato dai fascisti che gli spaccarono due costole e per parecchi mesi fu indisponibile”.
“Nel periodo nel quale svolgeva il servizio militare - prosegue Molinario -, Vittorio fu mandato alla Cremonese in prestito. Il gerarca Roberto Farinacci che dirigeva il giornale di Cremona, per osteggiarlo, ordinò ai giornalisti che commentavano le partite di non scrivere il nome di Vittorio nella formazione ma di mettere una ‘x’ al suo posto. Una cosa particolarissima, perché veniva pubblicata sul giornale la formazione e una ‘x’ in mezzo ai nominativi degli altri giocatori. Tutti lo vedevano in campo, però non lo potevano nominare”.
“Altro episodio riguarda il momento in cui fu tratto in arresto - spiega Molinario -. Il commissario di Polizia che lo aveva in custodia, nei primi giorni di marzo del ’44, lo conosceva e apprezzava come calciatore. Gli diede il permesso di rientrare a casa da solo a prendere degli abiti pesanti. Voleva aiutarlo perché, come disse a Vittorio, doveva andare a lavorare in Germania dove fa molto freddo. Avrebbe potuto quindi tentare la fuga, però non scappò e tornò indietro in Questura. Parlando anche con la nonna si sono fatte diverse ipotesi: il senso dell’onore da buon piemontese, avendo promesso di non scappare; il non conoscere la gravità di quello che accadeva in Germania. Anche il fatto che avendo fratelli e sorelle con figli e nipoti, non volle mettere in difficoltà gli altri componenti della famiglia con una sua fuga. Non sapremo mai la verità ma, probabilmente, fu un misto di tutte queste condizioni”.
“In campo di concentramento - prosegue il suo racconto Molinario - si giocavano delle partite di calcio, ma in una situazione diversa che nel film ‘Fuga per la Vittoria’. Le guardie naziste formavano delle squadre per giocare tra di loro. Quando per un qualche motivo mancava un giocatore, venivano chiamati tra i prigionieri alcuni di quelli che erano già stati individuati tra gli sportivi ed i giocatori di alto livello che si trovavano nel campo di sterminio. Lo zio era identificato come un operaio specializzato, essendo un tornitore. Un vantaggio, vista la penuria di manodopera specializzata. Ma Vittorio aveva dalla sua anche un’altra condizionefavorevole, in quanto era stato individuato come calciatore, quindi utile alle guardie. Per questo è sopravvissuto un anno, perché trattato leggermente meglio degli altri reclusi. I calciatori - prosegue Molinario - venivano, appunto, selezionati all’inizio della detenzione. In quel momento con lo zio Vittorio in campo di concentramento c’era Carlo Castellani che è la persona alla quale è dedicato lo stadio di Empoli (anche lui non sopravvissuto) e Ferdinando Valletti, un giovanissimo operaio dell’Alfa Romeo che giocava nel Milan come centrocampista. Quest’ultimo, invece, è sopravvissuto e ha scritto un libro di memorie dove ha anche citato lo zio Vittorio.Valletti racconta nel libro l’episodio di quando vennero chiamati in adunata perché le SS cercavano dei calciatori. Immaginiamoci che momenti terribili quando, in una adunata delle SS, senti chiamare il tuo nome. Per sentirsi poi chiedere, solamente, se giocavano a pallone. Vittorio morì per una cancrena causata dai pestaggi subiti, anche se calciatore. La morte avvenne, purtroppo, pochi giorni prima della liberazione”.
“L’eredità che ci lascia Vittorio - conclude Molinario - è quella di portare avanti la bandiera della libertà sotto tutte le forme e i punti di vista, di espressione e di pensiero. E di non aver paura di parlare con fermezza ma di non usare la violenza. Lo zio non partecipò mai a operazioni violente verso la parte avversa o vendette verso personaggi fascisti. Operava con la parola e la presenza”.
Tra l’8 settembre e il marzo del ’44, Vittorio coordinava con il fratello e tanti altri, all’interno delle fabbriche torinesi l’attività di contrasto ai fascisti e ai tedeschi. Teneva i contatti tra le fabbriche e i partigiani che operavano nelle montagne della Val di Susa. Non ha mai imbracciato un fucile: tanto energico sul campo di calcio, quanto corretto e non violento nella vita. Nella sua esistenza però ha sempre cercato di far valere i propri diritti e quelli degli altri lavoratori. In definitiva lottare per i propri ma rispettando i diritti degli altri. Una memoria da custodire, un esempio per i giovani.