Il Novecento, un secolo stretto tra Grande guerra e conflitti balcanici
Basterebbe scorrere le cifre della prima guerra mondiale per comprendere come il “secolo breve” si presentò con un salto di qualità nell’esercizio della guerra: quasi dieci milioni di soldati mandati al massacro, ventuno milioni i feriti
di Marco Travaglini
Il centenario della Prima guerra mondiale ( per noi italiani ha coinciso, cinque anni fa, con il 24 maggio del 1915, quasi un anno dopo lo scoppio del conflitto) ha rappresentato un’occasione per guardare al Novecento, il secolo che ha prodotto un numero di morti in guerra tre volte superiore a quello complessivo delle vittime di tutti i conflitti combattuti nei diciannove secoli che ci separano dall’inizio dell’era cristiana.
Basterebbe scorrere le cifre della prima guerra mondiale per comprendere come il “secolo breve” si presentò con un salto di qualità nell’esercizio della guerra: quasi dieci milioni di soldati mandati al massacro, ventuno milioni i feriti.
Fra le popolazioni civili quasi un milione di persone morirono direttamente a causa delle operazioni militari e circa sei milioni furono le vittime per quelli che oggi verrebbero definiti “effetti collaterali”, ovvero carestie e carenze di generi alimentari, malattie ed epidemie, nonché per le persecuzioni razziali scatenatesi durante la guerra. Numeri impressionanti che la retorica ha sempre cercato di esorcizzare o di nascondere, in nome dei esasperati patriottismi e dei “sacri confini”.
E’ incontestabile che il Novecento sia stato “il secolo più cruento della storia”. Se non si riflette su questo, se non s’impara dalla storia, il passato non passa. Cosa è stato compreso delle tragedie del Novecento, del significato delle parole che campeggiavano all’ingresso di Auschwitz, dei sistemi concentrazionari che con la Shoah o l’Arcipelago Gulag hanno segnato il secolo scorso? E cosa ne pensiamo del loro riapparire sul finire del secolo con “la guerra dei dieci anni” nel cuore dell’Europa, in quei Balcani che secondo Winston Churchill contenevano “più storia di quanta ne possano consumare” ? Tutti noi sappiamo dov’eravamo l’11 settembre 2001, quando arrivò la notizia dell’assalto alle Torri gemelle. Pochissimi dove si trovavano l’11 luglio 1995, quando cadde Srebrenica e iniziò l’ultimo massacro del secolo. Fu il triplo dei morti rispetto a New York ma quasi nessuno se ne accorse. Non c’erano immagini, in quei giorni, in tv. “Srebrenica, che roba era? Un buco tra le montagne dal nome impronunciabile -scrive Paolo Rumiz — ; l’Europa era al mare, la Bosnia non faceva notizia, la guerra stava finendo. E poi, a che pro sapere? Eravamo complici. L’Europa, le Nazioni Unite, la Nato. Avevamo lasciato che il massacro avvenisse”.
Sono passati venticinque anni: ora sappiamo. Ma si tende ugualmente a rimuovere, a dimenticare. Il centenario della prima guerra mondiale doveva rappresentare una buona occasione per interrogarsi, riflettere, imparare. In parte lo è stata anche se in misura insufficiente. Occorre porsi, ancora oggi, le giuste domande. Ad esempio, perché il Novecento nasce e muore a Sarajevo? Porre l’attenzione su questa domanda è fondamentale per comprendere almeno in parte quel che è accaduto negli anni ’90 ma anche nel decennio successivo intorno al contraddittorio concetto di “scontro di civiltà”.
Sarajevo è, se sappiamo vedere, al centro dell’Europa e più precisamente il punto d’incontro fra oriente e occidente nel cuore dell’Europa. Per meglio comprendere il ruolo che ricopre nella storia bisognerebbe scavare molto più indietro di quel fatidico 28 giugno 1914 quando nelle strade di Sarajevo un gruppo di giovani irredentisti decise di attentare alla vita dell’erede al trono del secondo impero d’Europa. Quell’attentato diventò il pretesto, la scintilla che innescò il primo conflitto mondiale. Ma è sufficiente immaginare cosa accadde quasi ottant’anni dopo, dopo le due guerre che insanguinarono l’Europa e il mondo. Nei giorni dell’assedio più lungo della storia moderna, a Sarajevo non bruciava solo la Viječnica, la vecchia biblioteca: andava in fumo anche un’idea di Europa come incontro fra oriente e occidente. Mentre bruciavano la città, un paese e l’idea di convivenza pacifica, gran parte dell’Europa e del mondo rivolsero lo sguardo altrove. Anche da questa parte del mare si guardava distrattamente la tragedia che si consumava nei Balcani senza capire che ad essere assediata erano la storia, la cultura, un’idea dell’Europa, la nostra stessa vita. Del resto era proprio questo l’obiettivo degli assedianti.
Le granate, le bombe incendiarie non cadevano a caso ma miravano i simboli.Le guerre moderne non hanno come obiettivo la distruzione dell’esercito nemico, con il quale spesso ci si intende e si fanno affari, ma la popolazione civile, la storia, la cultura, le città. Con l’assedio di Sarajevo si parlò di “urbicidio”: la volontà non era di prendere una città della quale non sapevano che farsene, ma di tenerla sotto scacco di fronte al mondo intero per sfiancarne la resistenza e il messaggio di civiltà e convivenza. Così le biblioteche diventarono obiettivi strategici perché i libri, come gli edifici e le opere d’arte, ci parlano della complessità e degli intrecci, di un’Europa come insieme di popoli e anche di minoranze. Sarajevo rappresentava tutto questo: un corpo estraneo al nazionalismo estremista, alle identità urlate e fatte valere con armi e violenza. Sarajevo rappresentava, come Mostar e altre realtà, un corpo sociale e culturale da offendere, colpire, estirpare nel disegno estremo degli ultranazionalisti che hanno teorizzato ( come ai tempi del Terzo Reich) la purezza delle razze lasciando una lunga scia di sangue nel corso del Novecento. Vedere riapparire sul finire del secolo scorso i campi di concentramento e il concetto stesso di “scontro di civiltà” riempiva di inquietudine. Anche oggi, in un mondo dilaniato da conflitti e violenze, pare di star seduti su un barile di polvere da sparo, pronto ad esplodere fragorosamente. Tutto ciò induce a pensare che se non siamo capaci di interrogarci sulla storia, questa verrà usata come una clava per sostenere che, in un mondo abitato a breve da nove miliardi di persone, lo spazio vitale ci sarà solo per qualcuno e non per altri. Secondo il diritto naturale, quello dei più forti.
le foto sono di Paolo Siccardi