Il primo dei lunghi tunnel alpini e una delle più colossali opere infrastrutturali dell’Ottocento
Il traforo del Fréjus, la galleria ferroviaria di oltre tredici chilometri che connette Modane e Bardonecchia, fu un progetto rivoluzionario per l’epoca e segnò per sempre la storia del transito attraverso l’arco alpino
Dal punto di vista dei trasporti, l’Ottocento è stato il secolo delle ferrovie. La prima locomotiva a vapore vide la luce nel 1804 in Inghilterra, e una ventina di anni più tardi il Regno Unito inaugurava il primo servizio pubblico di treni. Di lì in poi lo sviluppo delle reti ferroviarie divenne una questione di vitale importanza per i Paesi europei e procedette a un ritmo rapidissimo: nel 1850 nel continente si contavano già 33mila chilometri di binari.
Il treno accorciava le distanze terrestri e permetteva di aumentare il volume degli scambi. Aveva però un grande problema: le salite. Perfetto per le pianure, il sistema delle ruote a scorrimento su rotaie può affrontare con facilità solo pendenze piuttosto limitate, generalmente inferiori al due per cento, e questo ne limita l’uso in zone di montagna.
A metà Ottocento i collegamenti tra la Francia e la penisola italiana risentivano di questa strozzatura. Il tragitto tra Parigi e Torino, per fare un esempio, richiedeva circa trentacinque ore: una volta raggiunte le Alpi era necessario smontare dal treno e proseguire su una diligenza che s’inerpicava fino ai duemila metri del valico del Moncenisio, lungo una strada fatta costruire da Napoleone, e poi scendeva verso Susa, da cui si poteva riprendere il convoglio per Torino.
Per superare l’ostacolo delle montagne furono proposte varie innovazioni, come l’uso di rotaie dentate (ferrovie a cremagliera) o di meccanismi ad aria compressa che permettessero di spingere i convogli in salita, ma nessuna di queste si rivelò davvero funzionale e riuscì a prosperare, se non su tratte molto corte. La strategia alternativa consisteva nel perforare i rilievi con delle gallerie.
Fu su questa seconda soluzione che decise di puntare il Regno di Sardegna, a cui all’epoca appartenevano entrambe le regioni interessate dal progetto, il Piemonte e la Savoia. Lo stato sabaudo attraversava un periodo molto movimentato. Nel 1849 era stato sconfitto dall’Austria nella Prima guerra d’indipendenza, un evento che aveva portato all’abdicazione del sovrano Carlo Alberto e alla salita al trono di Vittorio Emanuele II. Il giovane re aveva davanti a sé il problema di rafforzarsi politicamente tramite nuove alleanze internazionali e di ammodernare il regno. In questo poté contare sul contributo di personaggi politici di grande importanza, come Massimo d’Azeglio e Camillo Benso conte di Cavour, che diedero un forte impulso allo sviluppo delle infrastrutture. È in tale contesto che il progetto di scavare un tunnel alpino venne identificato come un obiettivo prioritario, proprio perché avrebbe permesso di incrementare le relazioni con la Francia e ridurre i tempi di percorrenza tra Parigi e Torino a sole 18 ore.
Ma il traforo si inseriva anche all’interno di una rete ferroviaria più ampia. Il Fréjus sarebbe diventato l’elemento chiave di un lungo servizio di trasporti, la cosiddetta Valigia delle Indie (Indian Mail), ovvero il percorso internazionale che collegava Londra a Bombay, e che gli inglesi avrebbero utilizzato a cavallo tra il XIX e il XX secolo per lo scambio della posta e il servizio viaggiatori tra la Gran Bretagna e l’India. Il sistema prevedeva lo spostamento su rotaie nel Regno Unito, in Francia e in Italia, e poi, una volta a Brindisi, l’imbarco sui piroscafi che attraverso il nuovo canale di Suez avrebbero raggiunto le coste indiane.
Una galleria di quelle dimensioni sotto le Alpi, tuttavia, non era ancora mai stata realizzata, e presentava una serie di problemi che furono risolti dagli ingegneri italiani grazie ad alcune innovazioni tecniche. Il metodo tradizionale di scavo prevedeva l’uso di sostanze esplosive inserite all’interno delle rocce, poi innescate tramite una miccia. Successivamente entravano in azione gli sgombratori, che si occupavano della rimozione dei detriti, e quindi i muratori e i carpentieri che dovevano ampliare, consolidare e rifinire il tunnel. La velocità media di avanzamento era piuttosto bassa, e una galleria di una dozzina di chilometri, come quella prevista dal progetto, avrebbe finito per richiedere all’incirca una quarantina di anni di lavori. La fase più problematica era quella dello scavo dei fori di mina in cui inserire le cariche esplosive, che fino ad allora veniva eseguita a mano.
L’altro grande problema tecnico era quello dell’areazione. Con il procedere delle operazioni, la zona di lavoro della galleria si sarebbe trovata sempre più lontana dall’ingresso del tunnel, ed era fondamentale trovare dei modi per garantire la quantità di ossigeno necessaria alla presenza degli operai.
I tre ingegneri che redassero il progetto finale - Germain Sommeiller, Sebastiano Grandis e Severino Grattoni - risolsero queste difficoltà attraverso un loro brevetto che prevedeva la produzione di aria compressa tramite dei compressori posti all’inizio del tunnel e azionati tramite due ruote idrauliche. La forza pneumatica permetteva non solo di far arrivare aria respirabile nelle profondità della galleria, ma anche di azionare le nuove perforatrici meccaniche che sostituirono lo scavo manuale dei fori per le mine. Quest’ultima innovazione accelerò notevolmente i lavori, che si sarebbero conclusi in soli tredici anni.
Un’altra fase particolarmente delicata fu quella del tracciamento dell’asse della galleria, che richiedeva dei rilievi topografici particolarmente accurati. I lavori di scavo sarebbero avvenuti contemporaneamente da entrambi gli imbocchi, quello piemontese e quello savoiardo, posti a una dozzina di chilometri in linea d’aria l’uno dall’altro e separati dalla montagna. In un’epoca in cui non esistevano gps o immagini satellitari, un errore anche minimo avrebbe significato semplicemente che i due segmenti non si sarebbero incontrati.
I lavori iniziarono ufficialmente nell’ottobre del 1857. Tre anni dopo, nel 1860, il Regno di Sardegna cedette la Savoia alla Francia, che si ritrovò così direttamente interessata dalla realizzazione dell’opera. Pur lasciando la direzione e l’esecuzione dei lavori in mani piemontesi (che dall’anno successivo sarebbero diventate mani italiane), i transalpini stanziarono dei finanziamenti che alla fine coprirono più di un terzo del costo complessivo del progetto.
Allo scavo del traforo lavorarono circa 4mila operai, alternandosi in turni che andavano dalle otto alle quattordici ore giornaliere. La Val di Susa subì una trasformazione notevole. Bardonecchia all’epoca era un villaggio di montagna, sprovvisto di qualunque tipo di infrastruttura e sostanzialmente povero, di appena un migliaio di abitanti dediti per lo più alla pastorizia. In seguito all’inizio degli scavi divenne uno dei principali cantieri tecnologici del periodo, accogliendo quasi 2mila operai, per i quali si dovettero creare le necessarie installazioni, dagli alloggi, ai negozi di alimentari, alle scuole per i figli.
Complessivamente si registrarono quarantotto morti, considerato un numero non particolarmente elevato per l’epoca, soprattutto se si tiene conto che diciotto delle vittime persero la vita per l’epidemia di colera che colpì Bardonecchia nel 1865. L’incidente più grave sul cantiere fu un’esplosione del deposito di polvere da sparo, sempre nel 1865, che causò quattro vittime mortali e numerosi feriti.
Il 25 dicembre del 1870, dopo diverse settimane in cui le maestranze sentivano sempre più chiaramente i rumori di esplosioni e scalpelli provenienti dall’altro imbocco, venne abbattuta l’ultima parete di un metro e mezzo di spessore che separava i due segmenti della galleria. Nonostante le preoccupazioni iniziali, lo scarto di allineamento fu solo di pochi centimetri.
Il traforo fu inaugurato ufficialmente domenica 17 settembre 1871 con il passaggio del primo treno tra Italia e Francia. Il 5 gennaio 1872 transiterà per la prima volta il treno Londra-Brindisi — la Valigia delle Indie , ma la variante italiana non avrà il successo sperato. Negli anni successivi il porto pugliese verrà gradualmente spodestato da Marsiglia, fino a essere completamente abbandonato nel 1914.
All’impresa epocale dello scavo del Fréjus è stato dedicato anche un monumento, realizzato nel 1879 con i massi di quarzite provenienti dagli scavi e situato in piazza Statuto, a Torino. L’opera è un’allegoria della scienza vittoriosa sulle forze cieche della montagna e della natura: una prospettiva che forse oggi susciterebbe qualche perplessità, ma che rispecchia pienamente l’orgoglio positivista di fine Ottocento.
Fonte: Luigi Cojazzi, Fréjus, 150 anni sotto le Alpi