Demetrio Quattrone

Il senso di giustizia di Demetrio Quattrone

In occasione della Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime delle mafie, vogliamo portare a conoscenza una vicenda poco conosciuta

4 min readMar 21, 2024

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di Mario Bocchio

In occasione della Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime delle mafie, vogliamo portare a conoscenza la storia poco conosciuta di Demetrio Quattrone. Di lui, al di là della cronaca dell’epoca, era tornato a parlarne due anni fa il Presidio Tina Motoc di Torino.

“Non era un poliziotto, un magistrato o un politico, era un cittadino comune. Non aveva votato la sua vita alla causa, ma era spinto da un insaziabile bisogno di giustizia”. Demetrio Quattrone era un ispettore del lavoro ucciso dalla ‘ndrangheta il 28 settembre 1991 nella sua città, Reggio Calabria, insieme all’amico Nicola Soverino. Una vittima innocente per la quale non esiste una verità giudiziaria.

Ma cosa lega Quattrone al Piemonte? Ingegnere, aveva studiato al Politecnico di Torino. Era stato uno studente fuorisede. Da ragazzo aveva lasciato la sua città, Reggio Calabria, per studiare a Torino, dove molti meridionali arrivavano per lavorare come operai nelle fabbriche della Fiat. Lui ha imparato ad amare Torino, che considerava la sua seconda città, grato per avergli permesso di conseguire la laurea, ma soprattutto per avergli accresciuto un ferreo senso di giustizia.

Professionista integerrimo, si distinse per una serie di interventi pubblici contro quello che definiva “il partito dei palazzinari” che comandava a Reggio Calabria. Da ingegnere inventò il dispositivo di sicurezza “a uomo presente” che nei trattori arresta immediatamente il mezzo quando il conducente viene sbalzato via dal sedile, dispositivo che solo anni dopo venne reso obbligatorio per legge.

Quattrone e il medico Nicola Soverino

Funzionario dell’Ispettorato provinciale del Lavoro, dove coordinava la delicata attività di controllo nei cantieri edilizi, era impegnato anche come consulente per le Procure di Reggio Calabria, Palmi e Locri, che indagavano sulle attività delle ‘ndrine in piena seconda guerra di ‘ndrangheta. Sposato con Domenica Palamara, da cui ebbe tre figli (Rosa, Antonino e Maria Giovanna), viveva nel mulino di proprietà del suocero ristrutturato tra gli agrumeti di Villa San Giuseppe, nella zona nord di Reggio Calabria.

Cugino del deputato ed ex-sottosegretario agli Interni e all’epoca segretario regionale della Democrazia Cristiana Franco Quattrone, di cui era socio con una piccola quota nella società di consulenza Aurion, da cui però negli ultimi mesi di vita si era allontanato, fu il primo a mettere a fuoco in maniera chiara e precisa quanto stava accadendo intorno al “sacco edilizio di Reggio”.

I titoli dei giornali dell’epoca

La sera del 28 settembre 1991 Quattrone decise di far provare la sua nuova auto, una BMW 520, all’amico Nicola Soverino, 30 anni, medico omeopata laureatosi a Roma e anche lui tornato nella città natale, dove viveva a casa dei genitori nel rione Sbarre e prestava servizio presso la guardia medica di Gallico. Appena imboccata via Mulino, una stradina stretta e buia che in mezzo agli aranceti conduceva a casa Quattrone, arrivarono i primi colpi di fucile caricato a pallettoni contro l’autista. Soverino, che si trovava alla guida, muore all’istante, mentre Quattrone si gettò dallo sportello passeggero a terra tra l’automobile e un muretto basso. I killer, capito l’errore, tuttavia raggiunsero l’ingegnere e lo finirono a colpi di pistola 7,65.

Il caso apparve subito complesso. I sostituti procuratori Vincenzo Pedone e Santi Cutroneo, titolari dell’inchiesta, si trovarono di fronte a diverse piste: i controlli sui cantieri edilizi coordinati da Quattrone, i cui colleghi, in segno di protesta e solidarietà, si astennero per una settimana dalle missioni in esterno; il suo ruolo all’interno della società di consulenza Aurion, dove deteneva una piccola quota e da cui aveva manifestato più volte l’intenzione di liberarsi delle quote; la costruzione di due palazzi nelle zone di Arghillà e Pentimele attraverso le cooperative. Tuttavia nessuna si dimostrò prolifica e tutt’ora il duplice omicidio resta senza colpevoli.

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