Il tempo in cui volavano i maggiolini
La Tranquilla è la zona più a nord di Oltrefiume, popolosa frazione di Baveno, tra la sponda occidentale e piemontese del lago Maggiore e le pendici del Mottarone
di Marco Travaglini
E’ lì che sono nato, in una dimora modesta ma decorosa, al secondo ed ultimo piano di una vecchia casa di ringhiera, dai lunghi ballatoi. Prima di venire adibita ad alloggio aveva ospitato un antico opificio per la filatura del cotone.
Rammento l’ampia cucina, separata dal disimpegno con una parete di masonite ( un tipo di tavola fatta di fibre di legno cotte a vapore e pressate) dove,tra un muro e l’altro, s’intravedeva la trave in ferro dove un tempo scorrevano le carrucole utilizzate per spostare le pesanti balle di cotone. Di notte, specialmente in primavera ma talvolta anche in autunno, si potevano udire le corse pazze nel sottotetto di un’intera famiglia di scoiattoli, impegnata nel far rotolare ghiande e noci per rimpinguare la loro dispensa.
Davanti a casa c’era un grande prato con pochi alberi da frutto e tanto spazio per correre e giocare. Nella stagione invernale, le grandi nevicate ovattavano tutto e tra ragazzi improvvisavamo su quei brevi pendii delle interminabili sfide con le slitte di legno. Ai primi tepori della primavera, attorno agli alberi di ciliegio e ai meli in fiore, l’erba cresceva in fretta, tenera e profumata.
Ne strappavamo i ciuffi, sfregandoli energicamente tra le mani fino a farle diventare verdastre e poi, avvicinandole al naso e chiudendo gli occhi, annusavamo voluttuosamente quel buon profumo d’erba fresca. Lo stesso aroma aleggiava nell’aria quando il Guerra, contadino-allevatore trapiantato lì dalla Val Vigezzo, falciava il prato al tempo del maggengo per poi far seccare gli steli che, mutandosi in fieno, diventavano cibo per le mucche che teneva nella stalla.
Tra gli ultimi giorni d’aprile e l’inizio di maggio, appena le giornate accennavano a diventare più lunghe e tiepide, scoccava il tempo dei maggiolini che riempivano il grande e robusto noce che svettava davanti a casa. Volavano dappertutto, con quel lieve ronzio dovuto al frullare delle piccole ali. Muovendosi in formazione producevano un suono sordo che assomigliava molto a quello della corrente elettrica quando si passa sotto i tralicci dell’alta tensione. L’arrivo dei maggiolini,insieme al ritorno delle rondini, offriva la prova inoppugnabile che il calendario non mentiva: era ormai giunta la stagione del risveglio con le sue occhiate di sole, i primi temporali e l’aria che a poco,a poco prendeva calore. S’annusava, l’aria. Portava con sé l’odore del lago e il profumo dei boschi. Quella di tramontana scendeva dal Mottarone, baldanzosa come sa fare ogni brezza di monte che si rispetti, soffiando da nord-ovest a sud-est, dal tramonto all’alba, per poi cessare e lasciare davanti a noi il lago calmo fino alla tarda mattinata. I maggiolini, insetti dal dorso marrone lucido e lunghi qualche centimetro, erano ghiotti di vegetali e si cibavano golosamente delle tenere foglie verdi. E che dire, poi, delle lucciole? Offrivano, gratuitamente,uno spettacolo mozzafiato.
Tante, tantissime: luccicavano ovunque, nei prati. Pareva di stare in riva al lago assistendo alla processione delle barche, con i loro lumi tremolanti. Una tradizione, quest’ultima, che si svolgeva nella sera del Ferragosto quando la statua dell’Assunta veniva portata lungo le vie dell’isola dei Pescatori e poi, in barca, sulle acque del Maggiore. La danza delle lucciole era una vera e propria sarabanda indemoniata. Erano sempre in movimento, con i loro puntini luminosi e frenetici che galleggiavano nell’aria, s’inseguivano, scartando rapide a destra e sinistra. S’alzavano e s’abbassavano, roteando nel cielo scuro della sera. Essendo gli unici animali terrestri in grado di emettere una luce ai nostri occhi ingenui rappresentavano quasi un miracolo, una straordinaria apparizione. Con il tempo, mossi dalla curiosità, scoprimmo che - come nelle lampadine elettriche - la “lanterna” delle lucciole è composta da tre parti. Uno strato evita che la luce entri nel corpo mentre un riflettore , costituito da piccolissime cellule di minuscoli cristalli salini, riflette la luce. E’ lì dentro che, come in una centrale elettrica in miniatura, viene prodotta l’energia. La luce non nasce a caso. E’ il risultato dell’ossidazione, o della disidratazione, di una sostanza chimica dal nome diabolicamente evocativo: la luciferina. Inseguivamo le lucciole sui prati, catturandole al volo. Le tenevamo racchiuse nelle mani giunte , stando attenti a non far loro del male, imprigionando per pochi istanti la loro tenue luce. Illuminavamo l’incavo delle mani alla stregua di prestigiatori alle prove con un nuovo e misterioso trucco. Un effetto di pochi secondi e poi, liberate, le lucciole riprendevano il loro volo libero. Nell’erba alta cercavano i lunghi steli del “pane e vino”, l’erba acetosa o brusca , che succhiavamo e masticavamo godendone l’acre sapore. Quand’era il caso la strofinavamo sulla pelle poiché costituiva un eccellente rimedio contro le pizzicature delle ortiche. Si raccoglievano tutte le erbe, seguendo consigli e insegnamenti delle madri: boraggine, malva selvatica, menta, crescione, cicoria, tarassaco. Spesso arricchivano insalate e frittate. Inseguivamo a perdifiato quegli strani insetti neri e gialli, dalle elitre maculate che chiamavamo “i preti” per quella specie d’abito talare che portavano addosso. Erano bruttini ma del tutto inoffensivi. Manifestavamo grande rispetto e un po’ di timore nei confronti dei “cornabò”, dei cervi volanti .Il cervo volante, checché se ne dica, è sicuramente uno dei più grossi coleotteri esistenti . Dotati di due paia d’ali ( le prime molto robuste e prive di nervatura; le seconde più leggere e ripiegate sotto le prime) volano con aria marziale e altera. In realtà le loro con sono piccole corna ma mandibole molto sviluppate. Quelle propaggini,utilizzate per i combattimenti durante il periodo riproduttivo, rendono il maschio più terribile di quanto non lo sia effettivamente considerato che le grandi mandibole alla prova dei fatti sono alquanto inoffensive. Nelle femmine, invece, essendo più piccole e più efficaci, le “corna” pizzicano e basta toccarle per accorgersene. Un amico, che in seguito s’impegnò in approfonditi studi da entomologo, ci fece notare come la diffusione del maggiolino seguisse dei periodi ciclici. Non abbiamo dubitato del suo competente parere ma di maggiolini, da quei tempi ormai molto lontani, ne abbiamo visti ben pochi e sempre più raramente. In quel prato con i miei amici ho lasciato una parte importante dei ricordi d’infanzia: le corse, le capriole, il sali-scendi dagli alberi, i giochi avventurosi e i viaggi immaginari che la fantasia e le letture ci suggerivano.
Ora, quando raramente capita di passare da quelle parti, avverto una stretta al cuore. Il prato non c’é più. Al suo posto è sorto un alveare di case. Anche il grande noce è sparito e dov’erano le sue radici c’è solo asfalto. I meli, i ciliegi, i cachi? Tagliati, tutti. Anche il boschetto di robinie è finito in fascina. Le lucciole? Avranno traslocato altrove. Mi auguro solo che abbiamo trovato altri prati dove volteggiare, festose, sul finire della primavera annunciando l’inizio dell’estate. I ricordi si velano di tristezza al confronto con la realtà. E non c’è nulla di più triste dei luoghi che abbiamo vissuto intensamente e che si sono perduti per sempre, come se una grande spugna avesse cancellato dalla lavagna della memoria alberi e cespugli, felci e steli d’erba, lucciole e maggiolini. Cancellati senza traccia, come i disegni fatti con i gessetti colorati sulle nere lavagne d’ardesia, quelle delle scuole d’un tempo.