La California in Valle d’Orco
Nel 1972 gli arrampicatori un po’ hippy del californiano Yosemite park trovano gli emuli nella piemontese valle d’Orco
di Pino Riconosciuto
Con “Il Nuovo Mattino” di Gian Piero Motti il vento di cambiamento investe l’alpinismo eroico e romantico piemontese. Non più la vetta come unico obiettivo, ma il piacere dell’arrampicata come motivo d’essere. Un cambiamento che inciderà profondamente nell’alpinismo piemontese, al di là della tragica fine del fondatore. Gian Piero Motti era nato nel 1946 ed era un alpinista sui generis: molto bravo tecnicamente, aveva scalato vette importanti, portandosi ai massimi livelli dello sport della fine degli anni 60. Da allievo era diventato istruttore nella mitica scuola di roccia Gervasutti, per le sue imprese era stato chiamato nel Cai accademico, che raccoglie alpinisti con meriti speciali. Ma era anche diverso da tanti altri scalatori dell’epoca: intellettuale, benestante, arrivava con la sua Fulvia coupé e dormiva negli alberghi invece che in tenda. Aveva sempre i materiali migliori, lo chiamavano “il principe” per questo suo stile di vita, ma anche per il suo modo elegante di scalare.
La differenza non stava però solo nelle apparenze.
Motti è anche uno che legge molto, anchedi alpinismo internazionale, dai giornali americani conosce il movimento di arrampicatori che si focalizza in California: giovani liberi, lontani dalle vette molto alte, rare negli Stati Uniti, che si cimentano con materiali tecnici nuovissimi nell’arrampicata su pareti che diventano mitiche. Una tra tutte: El Capitan nel Yosemite park, 2307 metri di altezza, una sfida con un suo perché ancora oggi.
Per Motti le storie che legge sui giornali americani sono motivo di riflessione e di attrazione. Nel ’72 comincia a ripensare alla sua esperienza totalizzante di alpinismo. Nell’articolo I falliti, apparso in quell’anno sulla rivista del Cai, scrive tra l’altro: “Andavo ad arrampicare tutti i giorni o quasi, preoccupatissimo di ogni leggero calo di forma. Ma non mi accorsi nemmeno che stava divenendo primavera, non vidi neanche che qualcosa di diverso succedeva nella terra e nel cielo e chi ben mi conosce sa che ciò equivale a una grave malattia. Arrampicare, arrampicare sempre e null’altro che arrampicare, chiudermi sempre di più in me stesso, leggere quasi con frenesia tutto ciò che riguarda l’alpinismo e dimenticare, triste realtà, le letture che sempre hanno saputo dirmi qualcosa di vero e che con I’alpinismo non hanno nulla da spartire. Ma qualcosa comincia a non funzionare: ritornando a casa la sera mi sento svuotato e deluso, mi sento soprattutto inutile a me stesso e agli altri, mi sembra anzi, e ne ho la netta sensazione, che il mio intimo si stia ribellando a poco a poco a questo stato di cose, che il mio cervello non tolleri questo modo di vivere. Ed ecco che giunge la crisi, terribile e cupa”.
Bisogna cambiare. E la California con il suo movimento di liberazione e i suoi modelli di arrampicata rappresentano una sollecitazione troppo forte. Nell’autunno del 72 con un suo amico alpinista, Ugo Manera, in valle dell’Orco le suggestioni diventano realtà. Se in Californiac’è El Capitan, qui in Piemontenasce Il Caporal.
Scrive Ugo Manera: “Quando nel lontano autunno del 1972 mi venne in mente di denominare scherzosamente Caporalla prima parete scalata sugli allora sconosciuti “Dirupi di Balma Fiorant” della Valle d’Orco, non pensavo proprio che quel dirupo divenisse celebre come lo è ora. L’idea del nome mi era sorta pensando al gigantesco scoglio della californiana Yosemite Valley: il celeberrimo Capitan; solo che il nostro, pur bellissimo, era notevolmente più piccolo ed andava ovviamente posto ad un livello più basso della scala gerarchica”.
Nel 74 Motti, sulla rivista Scandere, scrive Il Nuovo Mattino, l’articolo che darà il nome al suo movimento: “Nella Yosemite Valley c’è il Capitan, parete immensa, guscio di granito dalle proporzioni disumane. Balma Fiorant presenta al centro una parete che è un microcosmo del Capitan, noi l’abbiamo chiamato il Caporal (…) Sarei molto felice se su queste pareti potesse evolversi sempre più quella nuova dimensione dell’alpinismo spogliata di eroismo e di gloriuzza da regime, impostata invece su una serena accettazione dei propri limiti, in un’atmosfera gioiosa, con l’intento di trarre, come in un gioco, il massimo piacere possibile da un’attività che finora pareva essere caratterizzata dalla negazione del piacere a vantaggio della sofferenza. Se qualcuno poi dirà che questo non è più alpinismo, di certo non ci sentiremo offesi nel sentirci definire semplici “arrampicatori” e non “alpinisti”. Cosa sia poi veramente l’alpinismo ancor non l’ho ben capito”.
E Ugo Manera commenta: “Le nostre avventure su quei dirupi furono sempre vissute con allegria, a volte in modo poco razionale, ma lontane da atteggiamenti epici che ancora comparivano in alcuni aspetti dell’alpinismo di allora. Il nostro era un gioco condotto con determinazione ma con spirito fanciullesco anche se non eravamo più ragazzi”.
E’ il via a un nuovo modo di praticare la montagna, gioioso e lontano dal senso di sacrificio e di dovere. E’ lo spirito del tempo, il vento del ’68 soffia anche tra i monti, non solo nelle università. Sulle pareti piemontesi si aprono vie nuove, molti giovani abbracciano la novità, talvolta con atteggiamenti provocatori.Qualcuno abbandona gli scarponi per le superga. C’è abbastanza da accendere dibattito e polemiche. Non tutti la pensano come Motti. Nel 2020 lo scrittore di montagna Lino Fornelli scrive un articolo dal titolo emblematico: Gian Piero Motti, il Nuovo Mattino, e i suoi equivoci. Scrive tra l’altro: “Il Nuovo Mattino è concepito come “un nuovo modo di intendere l’alpinismo”; alpinismo che lui stesso in altra parte definisce angoscioso: “dove l’arrampicata libera quasi non esiste, ma viene portata sino al limite di caduta”. Allora era davvero necessario dimenticare Paccard, Balmat, Whymper, Coolidge, Knubel, Mummery, Rey, Preuss, Dulfer, Comici, Cassin, Gervasutti, Bonatti, Hermann Bhul… cioè la storia dell’alpinismo, per passare attraverso un periodo di “purificazione” prima di ritornare alla montagna?Ma siamo proprio sicuri che l’alpinismo consista esclusivamente nel ricercare vie nuove su qualunque struttura rocciosa a qualunque quota? Che ripetere vie classiche sulle Alpi non sia più alpinismo?Che, tanto per fare un piccolo esempio, sia meno alpinismo salire il Dente del Gigante da nord che arrampicare su un qualche sperone roccioso di uguale difficoltà nel verde di qualche sperduto vallone?
Il dibattito era aperto anche allora. E Motti, uomo dalle certezze meno radicate di quanto potesse sembrare, in qualche modo lo faceva suo. Non a caso nel 1983 riflette sulla sua esperienza e su Il Nuovo Mattino, scrivendo su Scandere un famoso articolo, Alla ricerca delle antiche sere: “Perché antiche sere? Perché un albero mette frutti e fiori soltanto se ha radici e soltanto se la linfa vitale scorre dalle radici ai rami: se si taglia l’albero all’altezza delle radici, ahimè!, ben presto esso morirà, diverrà un tronco secco da ardere, senza fiori e senza frutti. Qualcuno, forse in buona fede, sta cercando di segare l’albero per staccarlo dalle sue radici, con l’illusione di dargli finalmente la libertà di movimento. Ma forse si è ancora in tempo a porre riparo, a cicatrizzare la ferita, ormai molto estesa, e a ricollegare i capillari della linfa con le radici sottostanti. Molti cominciano già a vedere che l’albero dà frutti avvizziti, quasi non dà più fiori, va perdendo le foglie e rinsecchendosi nei rami. Ed è per questo che mi sono preso l’arbitrio di usare tanto mito nel battezzare le pareti rocciose: lo si voglia o no, è nel mito che possiamo trovare il senso del nostro esistere e la risposta ai grandi perché della vita”. Sembra un ribadire la forza delle idee de Il Nuovo Mattino per ridare energia e nuovi polloni alle radici dell’alpinismo classico.
Andrea Giorda, alpinista e giornalista, ricorda così le idee di Motti: “Non era più importante la punta, la conquista, ma il viaggio in favore della meta. Basta sofferenze ed eroismi, meglio un’esperienza personale e un’avventura fine a stessa, anche su una anonima e soleggiata struttura di fondovalle.Grazie a lui, ancora oggi, per i giovani, l’Orco Valley è un luogo dell’anima, dove vivere esperienze, non solo un posto per agitare i muscoli”.
Certo è che l’esperienza spirituale dell’arrampicare per Motti non è salvifica. Nel giugno del 1983 decide di porre fine alla sua esistenza, non aveva ancora 37 anni.
Fabio Mancari e Tiziano Gaia nel 2016 hanno realizzato un film su Motti: Itaca nel sole, dal nome di una delle vie aperte in valle d’Orco. Dicono di lui: “Oggi possiamo dire che il passaggio di Gian Piero Motti nel mondo dell’alpinismo abbia rappresentato un’autentica boccata di aria fresca. La sua visione ludica della montagna, l’assoluta assenza di discriminazione tra alpinismo classico e scalata in falesia o su massi, l’apertura mentale e l’avversione verso il provincialismo hanno permesso all’ambiente di avvicinarsi alla scuola francese prima e a quella americana poi, cioè di adeguarsi ai tempi. Da questo punto di vista Motti è stato davvero l’uomo nuovo, il grimaldello che ha spalancato le porte su una nuova epoca. Il suo essere imbevuto dei miti musicali, letterari e cinematografici d’Oltreoceano ne fanno un rappresentante atipico e sfaccettato dell’alpinismo non solo italiano. A settant’anni esatti dalla nascita, Gian Piero Motti è un personaggio che non finisce di sollevare interrogativi. La sua parabola alpinistica è stata una ricerca sofferta del senso più profondo della vita”.