
La grande storia: il Vallo Alpino in Piemonte (prima puntata)
Percorsi che si inoltrano tra i segni che la storia ha lasciato sul territorio, dalle fortezze centenarie ai bunker delle Guerre mondiali, per gite che al fascino paesaggistico uniscono quello del viaggio a ritroso nel tempo
di Mario Bocchio
Il Vallo Alpino del Littorio, o Vallo Alpino, è un sistema di fortificazioni formato da opere di difesa di varie tipologie, costruito dall’inizio degli anni Trenta a protezione dei confini italiani dai Paesi confinanti, Francia e Svizzera. Dalla fine degli anni Trenta esso fu prolungato anche sul versante alpino orientale confinante con l’Austria — annessa dalla Germania — e con la Jugoslavia. Prima della Seconda Guerra Mondiale, le opere di difesa erano presidiate dalle unità della “GaF” (Guardia alla Frontiera) il cui motto era “Dei sacri confini guardia sicura”.

Si trattava di finanzieri in armi che portavano il cappello alpino senza penna, perciò venivano spesso e volentieri presi in giro dagli Alpini veri che la penna ce l’avevano. Alcune opere del Vallo Alpino Orientale restarono presidiate e operative fino alla caduta del Muro di Berlino, nel quadro della cosiddetta Guerra Fredda.

La costituzione del Vallo Alpino del Littorio avvenne ufficialmente il 6 gennaio 1931 con l’emanazione della Circolare 200 da parte del Ministero della Guerra, e i lavori per il suo completamento continuarono per diversi anni, proseguendo in alcuni casi anche durante il conflitto, fino all’ottobre 1942.
Da Mentone al Moncenisio
Il progetto iniziale comprendeva tutto l’arco alpino, partendo da Ventimiglia e arrivando all’allora città italiana di Fiume, sfruttando appieno la scarsità di rotabili, sentieri e colli e le difficoltà create dall’ambiente alpino.
La zona che, almeno inizialmente, fu maggiormente interessata dai lavori di rafforzamento fu la frontiera con la Francia: le vallate alpine piemontesi e quelle al confine franco-ligure furono pesantemente fortificate e rinnovate, essendo state, storicamente, al centro di numerose campagne belliche.

Fin dal “rattachement” di Nizza e Savoia alla Francia, per potenziare la difesa dell’arco alpino occidentale, fu nominata nel 1862 una Commissione permanente di difesa che provvide alla ricostruzione dell’intero sistema difensivo dando vita a quella che fu poi denominata la “cintura dei forti”. Nei decenni a seguire nacquero così numerose fortificazioni, dal Moncenisio al Colle dell’Agnello, da Vinadio al Colle di Tenda, dall’Alta Val Roja a Mentone, creando così un forte sistema difensivo, che però ebbe vita breve. Infatti con la fine della Grande Guerra e la dimostrazione dell’inefficacia difensiva dei forti ottocenteschi ai nuovi grossi calibri, ci fu un’evoluzione tecnica anche nei metodi fortificativi: i vecchi forti campali in cemento e pietra, privi di grossi spessori in cemento armato e corazzature, furono presto obsoleti e richiesero una ristrutturazione, se non la dismissione. Altra conseguenza nella modificazione delle tecniche difensive fu lo spostamento della localizzazione delle fortificazioni verso punti strategici per conformazione naturale: alture, valloni e strapiombi, che furono spesso trasformati in vere e proprie fortificazioni, pressoché invulnerabili, scavate nella roccia e riparate dalla morfologia stessa del terreno.

All’inizio degli anni Trenta, anche per ribattere alla foga fortificatrice d’Oltralpe con la costruzione della Linea Maginot, l’Italia di Mussolini iniziò la costruzione di un sistema difensivo verso il confine francese che si ispirava alla Maginot stessa. Il confine svizzero, al contrario, non fu interessato da lavori così ingenti di fortificazione, data anche la presenza di molte ed efficaci opere della Linea Cadorna, risalenti alla Prima Guerra Mondiale. Il confine occidentale, e successivamente anche quello austriaco, fu invece decisamente interessato da interventi militari.

Questa nuova difesa dei confini italiani era in realtà un progetto al limite delle capacità industriali ed economiche del Paese. I lavori infatti subirono negli anni consistenti rallentamenti dovuti alla scarsità di fondi e di materie prime, che hanno impedito che l’opera progettata venisse a compimento (allorché avrebbe contato 3325 opere fortificate). Sempre la situazione di deficit economico costrinsero spesso all’utilizzo di materiali inadeguati: pochissimo l’acciaio usato per l’assenza di materie prime, dovuto in parte alle sanzioni imposte all’Italia per la sua invasione dell’Etiopia e in parte all’autarchia imposta dal regime fascista che creava difficoltà di produzione e reperimento. Per far fronte alla carenza di materie prime, Hitler inviò in Italia ingenti quantità di merci. L’acciaio che arrivava, che serviva per i cannoni e generalmente per le armi, veniva fuso nuovamente per poter ottenere putrelle e feritoie corazzate a uso delle opere fortificate. Anche il carbone che serviva per alimentare gli altiforni delle industrie siderurgiche incaricate della produzione delle corazzature, porte blindate e per la produzione del calcestruzzo era inviato dalla Germania.

Alla fine degli anni Trenta i centri “Tipo 200”, (la denominazione deriva dal numero di protocollo della circolare che stabiliva le loro caratteristiche costruttive), erano prevalentemente di media grandezza, e solo alcuni di essi potevano vantare dimensioni rilevanti. In ogni caso erano ancora isolati e spesso non in grado di difendersi a vicenda, al contrario delle grandi opere della Maginot.
Per ovviare a questo inconveniente venne decisa la costruzione di numerose piccole opere monoblocco in calcestruzzo, denominate “Tipo 7000” (sempre dal numero della circolare che ne istituiva la realizzazione), che avrebbero dovuto, in breve tempo e con costi limitati, colmare le lacune. In realtà tale obiettivo non fu raggiunto per le ridotte dimensioni e la scarsa potenza di fuoco di queste opere, per cui alla fine del 1939 venne emanata la Circolare numero 15000, a firma del generale Rodolfo Graziani, che stabiliva le caratteristiche di una nuova generazione di opere, denominate “Tipo 15000”, operativamente autonome, più grandi e dotate di una maggiore potenza di fuoco.
Il Vallo conobbe il battesimo del fuoco dal 10 al 24 giugno del 1940 — la nota pugnalata alla schiena ai francesi — che tra l’Esercito italiano provocò la morte di 62 ufficiali e 1185 soldati, più 2600 feriti e 2151 congelati, nonostante si fosse all’inizio dell’estate. Tuttavia, in quota ci furono ancora nevicare e bufere tardive.

Bunker, fortini e casematte vennero poi utilizzate dai militari di Salò e dai nazisti durante i rastrellamenti, ma anche dai partigiani alla macchia. Terminata la guerra, le strutture più importanti vennero fatte saltare con l’esplosivo, così come previsto dal Trattato di pace. Per anni e anni i montanari portarono a valle tonnellate di ferro tolte dalle stesse costruzioni militari.
È venuto poi il tempo del totale silenzio e dell’abbandono. Gli escursionisti ogni tanto trovano ancora qualche brandello che ricorda la guerra, sepolto tra le macerie: una cassetta di legno fradicio di piastre da mitragliatrice, uno zaino sdrucito, giberne sfilacciate, bossoli, scatolette.
Lo Chaberton
Oggi le fortificazioni sono quasi integrate con l’ambiente, pietra su pietra, e hanno iniziato a diventare sempre più meta di escursioni, proprio come il teatro della Grande Guerra in Trentino. Gli alpinisti che percorrono strade militari, mulattiere e sentieri — carrozzabili fino a quote impensabili — non possono non notare solitarie casematte — alcune delle quali utilizzate come bivacchi — con i muri striati di salnitro, piene di echi e spifferi, che ospitarono isolate guarnigioni, senza pensare che solo un paio di generazioni dividono la pace di oggi dalla guerra di ieri.

Ci sono anche caserme con porte blindate tra pascoli, pietraie e brughiere d’alta quota, bunker di guardia a valichi, e valloni, magari travestiti — con pietre sopra il cemento armato — da innocue grange, ma smascherati dalle bocche di lupo, interi acquartieramenti appena dietro colli di presunta importanza strategica. E tanto filo spinato, truce, malefico, anche se vecchio e rugginoso.
“Il rancio arrivava freddo, i maccheroni gelati. Non era una guerra sentita. E pensare che ancora nel ’39 ci siamo presi una ciucca coi militari francesi, i Chasseurs, quelli col basco di traverso, e coi carabinieri italiani proprio al confine” ha ricordato un reduce.
(continua)