La musa del neorealismo italiano e spagnolo che brillò a Stresa
Lucia Bosé muore a 89 anni di coronavirus
di Mario Bocchio
L’ottava edizione di Miss Italia si svolse in Piemonte, a Stresa, come la precedente, in un’unica serata il 28 settembre 1947. Vinse la milanese Lucia Borloni, 16 anni, commessa in una pasticceria. Poco dopo entrò nel mondo del cinema mutando il nome in Lucia Bosè e divenendo una delle attrici più richieste dai maggiori registi dell’epoca. Proprio quell’edizione fu particolarmente “fortunata”, perché potè contare fra le finaliste diverse future stelle del cinema: Gianna Maria Canale, Luigia “Gina” Lollobrigida, Eleonora Rossi Drago e Silvana Mangano. In una delle ultime interviste rilasciate da Lucía Bosé, c’è un’affermazione che, letta da ora in poi, colpisce anche. L’attrice dai capelli blu aveva detto alla rivista “Vanity Fair” che l’ultima volta che ha rinnovato il suo documento d’identità, l’uomo della stazione di polizia ha scherzato a modo suo: “Dato che sei immortale, quale data di scadenza vuoi che ci metta?” . E ha anche risposto a modo suo: “Mi ha messo il 1 ° gennaio 9999 … Quindi sono ufficialmente immortale”.
Lucía Bosé è invece morta a Segovia a causa del coronavirus. L’attrice che ha debuttato con Dino Risi e che insieme a Michelangelo Antonioni ha vissuto i suoi migliori momenti, aveva 89 anni. Madre di Miguel Bosé e Paola Dominguín, sposò il torero Luis Miguel Dominguín nel 1955. In Spagna, oltre all’ovvietà del loro matrimonio, era conosciuta e riconosciuta per il suo lavoro con Juan Antonio Bardem in “Morte di un ciclista”, e con Luis Buñuel in “Así es la Aurora”.
C’è un’altra citazione che oggi suona sinistra. Era un commento ironico, divertente … ma, in questo momento, persino cupo. “Odio il bacio spagnolo! Lo detesto! Tutti ti baciano e ti scuotono. In estate è scomodo perché muori di caldo. In inverno è pericoloso perché puoi prendere l’influenza. Questo è quello che ho realizzato quando sono arrivata in Spagna con il marito torero. Non ci siamo mai baciati. Ero una donna abbastanza fredda. Gli uomini non sono molto affettuosi e i toreri ancora meno”. E lì, ancora una volta, l’ha lasciato. Il fatto che la morte sia precisamente dovuta al coronavirus dà alla frase innocente un nuovo significato. Molto più triste. E crudele.
Ripassare la sua filmografia è abbastanza simile ad attraversare tutto il nuovo cinema italiano e parte di ogni altro nella sua estensione più ampia. Eppure, ogni volta che ne ha avuto occasione, ha dichiarato e confessato che era solo di passaggio. E da lì, forse, le lunghe pause con le quali si allontanava dalle telecamere nonostante tutto, nonostante i riconoscimenti, nonostante la fama, nonostante la stessa gloria. Il fatto che il suo primo ruolo importante sia stato nelle mani di Michelangelo Antonioni l’ha segnata. Sì, la filmografia italiana della pausa e del vuoto parte da Monica Vitti, ma solo a lei è stato dato il privilegio di incarnare la prima delle sue eroine, al limite di tutti gli abissi, in “Cronaca di un amore” (1950). Quando in seguito diede vita a Clara Manni ne “La signora senza camelie”, si poteva ben dire che il suo destino era stato scelto. C’era qualcosa di lei in ogni gesto di quella donna profondamente delusa del mondo del cinema, che le ha dato tutto e niente.
Nel 1955, un anno chiave, tutto cambiò di nuovo per la commessa che, un giorno nel 1947, divenne Miss Italia. Sposa il torero alla moda, Luis Miguel Dominguín, e lo fa prima a Las Vegas e poi all’altare. Sull’altro altare. Il suo ruolo in “La morte di un ciclista” la rende improvvisamente una musa ispiratrice di tutto ciò che è diverso, di tutto ciò che verrà. Allo stesso tempo, è lei che diede la benedizione, diciamo, a un Luis Buñuel che sbarcò in Francia dopo il suo “esilio” messicano. E tutto questo, mentre la sua vita ha iniziato a essere al centro di quasi tutto. Miguel Bosé (come lei) e le sue figlie Lucía e Paola Dominguín sono l’inizio della saga che sarebbe arrivata subito dopo. E dietro di loro, altri dieci nipoti, incluso il modello e la musa della stessa Bimba Bosé, morta nel 2017.
Qualunque cosa sia, ci volle un po’ di tempo per tornare al cinema. Con Fellini lavorò in “Satiricón” (1969), con i fratelli Taviani girò “Sotto il segno dello scorpione”, si incuriosì per la criptica e sempre rivoluzionaria scuola di Barcellona. ‘’Nocturno 29”, di Pere Portabella, è direttamente il precipizio di tutti i precipizi, il segno di autenticità e il rischio che un interprete debba diventare qualcos’altro: un mito puro con i capelli blu. Da questo periodo, sono ruoli come quelli offerti a Liliana Cavani in “L’ospite” e Margueritte Duras in “Nathalie Granger”. A loro e a Basilo Martín Patino in “Del amor y otros soledades”. Sono tutte opere potenti, introspettive e sempre all’avanguardia. Il femminismo per mano dei precedenti e il loro ruolo in, perché no, “Mrs. Garcia Confesses”, di Adolfo Marsillach, potrebbe benissimo essere questo. Lo stesso o sè stessa.
Poi la vita di Lucía Bosé racconta delle innumerevoli cronache, la rosa e l’azzurro, che sarebbero arrivate dopo essersi rifugiata nella città segoviana di Brieva e che lì avrebbe incontrato gli angeli. Figurativamente e perfettamente reale (li ha raccolti). E lì, senza dubbio e per il testo, ha concordato con l’eternità. E in questo, nonostante pandemie e passaporto, continua. Ricordando che in fondo tutto iniziò in quella notte sul Lago Maggiore.