Le buie serate di chiacchiere e ricordi al Circolo Operaio
C’erano sere nelle quali una nuvolaglia scura e carica di pioggia riempiva il cielo, celando agli sguardi la luna e le stelle
di Marco Travaglini
“Sono sere da fiaschi e chiacchiere da osteria”, diceva Ugo Pollastri, entrando con passo deciso al Circolo Operaio. Nel locale, in quei tempi piuttosto lontani, accanto a un bicchiere di vino non mancavano i taglieri di salumi e formaggi,la polenta “concia” e pesciolini in carpione, vero e proprio attentato al fegato dei commensali ma, essendo ciò che passava il convento, nessuno rifiutava quanto l’oste proponeva per quello spuntino fuori-orario. Accomodati ai tavoli o in piedi, appoggiati al bancone della mescita, gli avventori inanellavano ricordi e aneddoti.
Prendevano forma e si animavano le vicende dei personaggi più conosciuti come quelle di Tino Bagutti e del suo “Motom”. Tino era stato tra i primi, subito dopo la seconda guerra mondiale, ad aver avuto tra le mani quel robusto ed economico ciclomotore, capace di buone prestazioni e abbastanza affidabile, pur essendo confinato nei limiti di cilindrata dei più classici “cinquantini”. Il Motom, creato dal fantasioso ingegner Battista Falchetto, un ex-progettista della Lancia, in collaborazione con gli industriali De Angelis Frua , era stato presentato al salone di Ginevra del 1947 con il mome di Motomic (abbreviazione di “Moto Atomica”..). Bagutti lo teneva come un bijou,sempre lucido e in ordine. Dietro al sellino aveva applicato una coda di volpe che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto svolazzare davanti agli occhi dei passanti quando transitava la rombante motocicletta.
La realtà fu però un’altra e la coda restò quasi sempre giù, moscia, tristemente penzolante. Il Motom in salita non aveva spinta a causa dell’età e per colpa di chi lo guidava, procedendo a passo d’uomo tra le due file d’alberi del lungo rettilineo tra il Circolo Operaio di Oltrefiume e la Tranquilla. Tino Bagutti teneva molto “all’assetto del pilota”: guidava in posizione da corsa,proteso in avanti sul manubrio, vestito di pelle nera con cuffia di cuoio e un paio di enormi occhialoni.
I ragazzini lo aspettavano, gli correvano appresso e, dopo averlo affiancato, gli riservavano degli sguardi strafottenti e lo sorpassavano. Lui, umiliato, li guardava digrignando i denti ma non ci diceva mai nulla. Dalla sua bocca non usciva nemmeno una sillaba anche se non era difficile intuirne i pensieri bellicosi. Venne ribattezzato “il centauro della volpe triste”. E lui, con intuibili e valide ragioni,non ringraziò. Un altro personaggio che veniva evocato in quelle serate era il Balloni. Di nome faceva Alberto o Gilberto. Era un bel personaggio. Un tempo militare nella “Légion étrangère”,aveva combattuto in Indocina, partecipando alla tragica battaglia di Dien Bien Phu nel 1954. Era un uomo d’azione, sprezzante del rischio. Si definiva, con un ossimoro, un “fascista-comunista”.
La sua famiglia era stata dalla parte del Duce durante il ventennio e alcuni suoi membri avevano combattuto sotto le insegne della Repubblica di Salò. Lui, negli anni che seguirono alla Liberazione,continuò a coltivare il mito dell’ uomo forte e d’ordine. “Dove aveva fallito il Duce, c’è sempre la possibilità che andasse bene a Stalin”, diceva ad alta voce quando alzava un po il gomito, a riprova che spesso, come si dice, “nel vino c’è la verità”. L’ideologia non era opposta? L’ideologia, per lui, non c’entrava un accidente. “Ciò che conta è la dittatura. Qui ognuno fa i cavoli suoi e non risponde a nient’altro che ai propri interessi. E allora, cari miei, ci vuole ordine, disciplina. Un tempo era il fascismo a far rigare dritti questi lazzaroni, ora ci potrebbe pensare il comunismo”. Quel “ci potrebbe” veniva espresso in forma dubitativa poiché aveva una scarsa, scarsissima considerazione dei comunisti italiani in genere.
“Gente troppo democratica, troppo perbene. Vogliono cambiare le cose con le elezioni,con il consenso.Non capiscono che qui ci vuole lo schioppo e non il voto. Quelli lì son molli, si perdono dietro alle parole quando invece c’è bisogno di agire, di tirar fuori gli attributi come fanno i Russi”. Pronunciava quelle parole accompagnandole con inequivocabili gesti e un sorrisetto sardonico sotto i suoi baffetti radi. Non si capiva se scherzasse o se credesse sul serio a ciò che diceva. Erano tanti anni che era morto ma il suo ricordo era legato a quel paradosso d’essere stato, a modo suo, un “fascista-comunista”. C’era poi il Gùstin, al secolo Aurelio Gustavino. Abilissimo nel fare affari, si era fatto un nome per la capacità di contrattare l’acquisto del riso nei paesi della “bassa”, tra le risaie novaresi e vercellesi. Portava con se una stadera, una bilancia per la “pesata” a braccio, utilissima per misurazioni che non superassero i 15–20 chili. “A trattare era un mago. Infiocchettava i suoi discorsi con una parlantina che alla fine i suoi interlocutori non capivano più niente. Ah, che roba: li fregava sul peso e loro, per la paga, lo ringraziavano pure, quella volpe del Gùstin”, si commentava al tavolo dove le carte da ramino la facevano da padrone. Il meglio di se, però lo dava nell’acquisto delle uova dalla signora Marianna. La frase che accompagnava il lesto movimento delle mani nel contare le uova sembrava quasi uno scioglilingua: “Quattro e quattr’otto, e quattro che fan otto, e quattro dodici..va bene, Marianna?”. E Marianna annuiva, consegnando sedici uova al prezzo di dodici. In quanto ad abilità e faccia tosta, Aurelio Gustavino era un maestro. Si raccontava che, quand’era giovane e frequentava i più sperduti borghi, chiedeva spesso l’elemosina con fare dimesso.Guardava, supplicante, negli occhi delle vecchie signore che incontrava, sussurrando loro con un filo di voce: “Fate la carità ad un pover uomo che in una mano ha cinque dita e nell’altra tre e due”. Un po’ di denaro l’aveva raccolto così, accompagnandolo con del cibo, dei vestiti e qualche legnata sul groppone. Ma gli “incidenti di percorso” non lo dissuasero dal mettere a frutto la sua fantasia. Così, tra una chiacchiera e l’altra, rievocando vecchie storie e personaggi, passavano le serate di pioggia al Circolo Operaio. Fuori, la notte nuvolosa si era ormai mangiata le stelle; dentro, tra il fumo del camino e dei sigari ( ancora di poteva fumare, a quel tempo) le chiacchiere degli amici “lucidavano” i ricordi al pari delle pentole della cucina che s’intravvedeva dietro al bancone della mescita.