L’ombrello del pescatore d’anguille
Non tanto alto, sguardo furbo e due gote belle rosse, non ha sangue blu nelle vene
di Marco Travaglini
In una famiglia di operai e contadini solo un cugino in seconda era impiegato in un’agenzia di assicurazioni. Troppo poco per vantare un “quarto di nobiltà” anche se il suo doppio cognome, con tanto di trattino nobiliare, può trarre in inganno. In realtà quel trattino non è altro che un aggiunta posticcia, frutto di un errore dell’impiegato dell’anagrafe che aveva registrato l’atto di nascita aggiungendo al cognome paterno quello materno, separando l’uno dall’altro con un tratto di penna.
Così, negli atti ufficiali e col tempo, la svista è diventata consuetudine, trasformandosi nella più reale delle realtà, con buona pace di tutti e di Fausto per primo. L’errore non poteva però esser definito tale al cospetto del signor Eugenio, impiegato comunale con trent’anni e più di onorato servizio sulle spalle. Alla segnalazione del refuso s’irrigidì come uno stoccafisso: “Qui di errori non se ne fanno e non se ne sono mai fatti, chiaro?”. Non ammettendo possibilità di replica la cosa finì lì. Di tempo,da allora, ne è trascorso tanto e a parte l’essere riconosciuto come uno dei più accaniti giocatori di scopa d’assi della sponda piemontese del lago Maggiore, il buon Faustino dal doppio cognome, da tempo in pensione, è noto anche come il più formidabile pescatore d’anguille che si sia mai visto all’opera su quelle rive.
La zona dove “pratica” si estende lungo quel tratto di costa del Verbano che va tra la foce del Toce e il “molino di Ripa” a Baveno. Nella pesca all’anguilla è facilitato, per così dire, da un problema che lo tormenta: l’insonnia. Siccome l’anguilla si pesca solitamente di notte, affondando la lenza nell’acqua scura, l’assenza di sonno diventa un vantaggio. E così per far passare le ore, pesca. A volte, tornando a casa a mani vuote si lamenta con i conoscenti che incontra. La “solfa” è sempre la stessa.
“L’Anguilla è in calo. E’ un po’ di tempo che le cose vanno in malora. Tutte le anguille sono nate nel Mar dei Sargassi, l’unico posto dove si riproducono. Devono migrare, capito? Va di qui e va di là, l’anguilla. Un viaggio da Marco Polo. E, mondo ladro, adesso ci sono quelle dighe che regolano i livelli dell’acqua lungo il Ticino a rompergli le scatole, in particolare quella di Porto della Torre, tra Somma Lombardo e Varallo Pombia. Ecco, quella lì è diventata la linea del Piave per le anguille: da lì se pasa no! E se non si riproducono, io cosa pesco? Le scarpe vecchie e i barattoli arrugginiti?”. Tra l’altro non è una pesca facile. Essendo l’anguilla un pesce robusto e lottatore, occorre attrezzarsi a dovere. La canna? Con il cimino rigido, robusto e un mulinello in grado di ospitare una bobina di nylon di grosso spessore. La montatura dov’essere resistente, da combattimento: lenza dello 0,30 , amo del sette a gambo corto o del sei, forgiato storto, e un bel piombo a pera da 20 grammi. La ferrata non può essere incerta, balbettante.
Non s’indugia con l’anguilla: occorrono decisione e rapidità. Anche il recupero dovrà essere fatto nel modo più veloce possibile per evitare che la preda riesca ad afferrarsi con la coda a qualche ostacolo sott’acqua, ancorandosi. A quel punto, ciao bambina: non la tiri fuori più neanche con il crick. Faustino é coscienzioso, attento, preciso come uno svizzero. Controlla con scrupolo l’attrezzatura quando, calate le prime ore della sera, si prepara a partire per il lago. Oltre a canna, cassetta degli attrezzi ( ami, piombi, galleggianti, bave e così via), esche e guadino non si scorda mai dell’ombrello. Sì, perché l’ombrello è un elemento indispensabile.
Quello che è solito usare l’ha acquistato da uno degli ultimi ombrellai della zona. Nella bottega di mastro Luciano il tempo si è fermato: vecchi mobili di legno con le vetrine piene di ombrelli artigianali di tutte le fogge. Faustino ne parla con entusiasmo. “ In quella bottega Luciano ripara ancora gli ombrelli, come faceva suo padre e prima ancora il nonno e lo zio. E’ uno come me, di quelli di una volta. Ormai quel mestiere, in giro per l’Italia, chi volete che lo faccia? Non lo fa quasi più nessuno ma lui resiste, tiene duro, altro che storie. Ho comprato due ombrelli fatti da lui; uno di tela pesante e con asta, manico e stecche in bambù e il puntale di ferro, e un altro di seta grezza. Una meraviglia! Il primo lo uso per ripararmi dalla pioggia, l’altro è il mio porta-anguille”. Il porta-anguille? Quando capita di sentire questa storia per la prima volta, lo stupore è inevitabile. Lui, per tutta risposta, con quello sguardo malandrino che accompagna i suoi più larghi sorrisi, si mette a parlare della pesca con il “mazzetto” e con l’ombrello. Lo fa pacatamente e con pazienza, senza “mettersi in cattedra”. Racconta che si pesca sotto riva, con la canna fissa di bambù. Senz’amo, perché non serve. Stupiti? Tutti lo siamo stati la prima volta che si è ascoltato il racconto. Faustino dal doppio cognome sostiene che così di pesca, utilizzando una lenza speciale: uno di quei normalissimi cordini di canapa per l’imballaggio e un sottilissimo filo di ferro cotto, morbido e pieghevole, della lunghezza di un metro.
Quest’ultimo serve a legare a mazzetto una manciata di lombrichi. Prima di iniziare la pesca, occorre disporre l’ombrello aperto e capovolto, con la punta fissata per bene nel terreno. L’interno di questa grande “scodella” va bagnato così da renderne scivolose le pareti. Appena l’anguilla addenta il mazzetto si avvertono dei piccoli strappi che si alternano a tirate più decise e brevi pause. E’ l’anguilla che, con voracità, sta ingoiando l’esca. “Non bisogna aver fretta”, spiega l’abile pescatore. “Occorre dar tempo, all’ingorda. I movimenti bruschi la insospettirebbero. La canna va alzata prima con lentezza e poi più in fretta, fino a portare la preda a pelo d’acqua. L’ultima fase, sempre senza strappi, è la prova del nove di abilità: si solleva l’anguilla per calarla nell’ombrello. Colta di sorpresa cercherà di riparare al suo errore e lo farà tentando di sputare l’esca. Ma ormai è tardi, per sua sfortuna: non potendo espellere l’intero groviglio di vermi si accorgerà che questi istanti le saranno fatali. Cadendo nell’ombrello non avrà scampo: dal fondo, viscida com’è, non potrà risalire. Qualora invece ricadesse in terra, non resta che salutarla: sveltissima, al buio, riguadagnerà l’acqua”. Ride sornione e ci saluta mentre s’avvia verso il lago con la canna e l’ombrello mentre il sole al tramonto s’accinge a scomparire dietro alla vetta del Mottarone.