Masacrin
Dicembre: tempo di macellazione del maiale in Piemonte
di Mario Bocchio
Quasi tutti i contadini allevavano il maiale. Oggi il maiale sarebbe il miglior testimonial della sempre più invocata economia circolare, proprio perché mangiava di tutto. Non per caso, un tempo in Piemonte la macellazione del maiale era una missione fondamentale. Avevi bisogno di cibo per superare l’inverno senza alcuna refrigerazione oltre alle temperature di raffreddamento della stagione. Il masacrin (si chiamava così, aveva una borsa di cuoio con i coltelli, come quella del medico condotto) girava per le aie ad ammazzare i maiali. Lo faceva velocemente e umanamente perché l’adrenalina non irrigidisse i muscoli, poi ci si metteva subito al lavoro macellandolo in modo da poterne conservare buona parte come prosciutto, salame e altri prodotti che rientrano nella categoria dei salumi. Del maiale, è la verità, non si butta mai via niente. Era la vecchia tradizione. Il maiale sacrificato a dicembre produceva il premiato salame a grana grossa la maggior parte degli anni, e faceva anche un ottimo lardo. Andava in scena un vero e proprio rito, scandito da precisi momenti. Dopo la morte c’erano la raccolta del sangue dal corpo dell’animale, usato poi per farne i sanguinacci, poi la spellatura con coltello ed acqua bollente, che veniva versata addosso al maiale morto per ammorbidire le setole, che venivano asportate con grossi coltelli affilati.
Ci volevano circa due ore e mezza per scomporre completamente il maiale in pezzi che sarebbero rimasti fuori durante la notte (affinchè il gelo frollasse la carne), inclusa la lavorazione degli intestini in budelli di salsiccia grossolanamente puliti. Il giorno dopo, di buon mattino, il maiale veniva ulteriormente scomposto, una parte della carne veniva macinata e la salsiccia insaccata nelle budella. Mani sapienti impastavano la carne condita con le migliori spezie (pepe e noci moscate), aglio (pestato nel mortaio) e innaffiata con il vino più pregiato della cantina. Non si speculava sulla qualità dei prodotti, perché era la concia a garantire la conservazione naturale dei salumi nell’apposita stanza della cascina. Profumi antichi che solo chi ha avuto la fortuna di assaporarli non dimenticherà mai per tutta la vita. Profumi che sono rimasti la cultura di una civiltà che, ahinoi, non esiste più.
Ci voleva l’intera mattinata. I cacciatorini, il salame più giovane, venivano mangiati per primi in occasione delle merende pasquali.
A mezzogiorno ci si sedeva ad un banchetto di maiale mentre le carni conservate pendevano già profumatamente. Sul fuoco la polenta era d’obbligo e insieme alla cosiddetta frittura, misto di tutte le frattaglie. Un piatto povero, ma frutto di una ricca e saggia cultura. Dal grasso del maiale si ottenevano i ciccioli e lo strutto, uno dei migliori ingredienti del pane contadino.
Quando si ammazzava il maiale si faceva una grande festa, si chiamavano i parenti, i vicini di casa e gli amici, guai se qualcuno non lo invitavi, si offendeva. Si faceva festa, si giocava e si cantava. Prima del grande avvenimento, il maiale lo si lasciava digiunare almeno un giorno. Dopo la macellazione nel paese ci si interrogava sul peso, nella convinzione che più era grosso più ci si poteva vantare. Era proprio una competizione tra contadini.
Nella tradizione rurale le donne mestruate non potevano assistere all’uccisione e tantomeno alla lavorazione della carne perché avrebbe potuto andare a male.
L’uccisione avveniva necessariamente a luna mancante, con la neve nell’aia, perché, sempre secondo la tradizione popolare, la carne sarebbe stata migliore.
Sant’Antonio Abate, il protettore degli animali, è raffigurato sempre accanto ad un maialino. Secondo quanto tramandato, il Santo usava la sugna come un antidoto contro l’herpes zoster, noto come il fuoco di Sant’Antonio, per evitare il diffondersi della malattia, e contro slogature, abrasioni e dolori muscolari.
Tutto ciò pare un ricordo antico, ma in fondo chi oggi ha cinquant’anni lo conserva nella propria memoria e quel profumo non riesce proprio ad eliminarlo.