Parliamo di frutta in Piemonte
In questi ultimi anni, contestualmente all’aumento della disponibilità nei mercati, è stata sottolineata l’importanza della frutta nella alimentazione umana
di Alessandro Bruno
La frutticoltura piemontese con la sua grande qualità è protagonista in questo settore. Un comparto dell’agricoltura che è stato sviluppato in Piemonte anche grazie al fatto che la nostra regione è sempre stata una zona di passaggio di pellegrini e mercanti da tutta Europa e non solo.
Non per nulla a Torino è presente, dal febbraio del 2007, Il museo della frutta, intitolato a Francesco Garnier Valletti, dove è conservata la collezione di “frutti artificiali plastici”, creata da questo stesso studioso nella seconda metà dell’800. Questa raccolta all’epoca ebbe una importante valenza per gli studiosi di pomologia che non disponevano di fotografie o immagini digitali.
Ancora oggi risultano molto utili gli appunti del Garnier Valletti per coloro che si dedicano all’approfondimento del patrimonio genetico, per il recupero, la salvaguardia e la valorizzazione delle specie fruttifere più rare o che si rischia di perdere perché non utili alla moderna standardizzazione produttiva.
Ad eccezione dell’actinidia (kiwi), le specie frutticole presenti nel nostro territorio iniziarono a diffondersi, come in tutta Europa, lungo le strade dell’Impero di Roma. Nelle abbazie del medioevo proseguì la coltivazione della frutta ma allora, rispetto alla alimentazione di mera sussistenza dell’epoca, cibarsi con la frutta veniva considerato qualcosa di non strettamente necessario se non sfizioso. Ancora fino al XIV secolo gli alberi da frutto erano considerati, più che altro, piante ornamentali, un lusso da esibire nei giardini delle dimore signorili.
Per iniziare a vedere un reale sviluppo della frutticoltura piemontese, bisogna attendere la fine del XVIII secolo, quando i Savoia favorirono l’aumento della produzione ispirandosi ai “jardins fruitiers et potagers” di Versailles. Tuttavia, ancora nella statistica generale della agricoltura del Regno sabaudo, del 1752, risultavano diffuse solamente colture di vite, castagno e noci, rispetto alla preminente diffusione della coltura dei cereali. Tra le eccezioni dell’epoca vi erano le mele di Bagnolo, le pesche di Canale d’Alba e le albicocche di Costigliole Saluzzo.
Un passaggio importante per la diffusione della frutticoltura si ebbe con la fondazione nel 1785, da parte di Vittorio Amedeo III, della Accademia di Agricoltura di Torino (inizialmente chiamata semplicemente Società agraria). Per la sperimentazione e la diffusione di varietà nuove, vennero organizzati orti sperimentali a Torino, alla Crocetta nel 1798 e al Valentino nel 1886 (dove dal 1930 è stata poi aperta la sede dell’Istituto elettrotecnico nazionale “Galileo Ferraris”). Tra i vari soci dell’Accademia troviamo anche Camillo Benso Conte di Cavour, che era promotore di una particolare metodologia di coltivazione del pesco — a “spalliera” — che venne introdotta originariamente a Santena (To) a metà ‘800.
A partire dagli inizi del XX secolo, la frutticoltura iniziò a specializzarsi e a rivestire una funzione rilevante nell’ambito dell’economia agricola regionale e si arrivò, alle soglie della Seconda Guerra Mondiale con 7 mila ettari di frutteti in Piemonte. Questo malgrado la pianificazione agricola del governo fascista si focalizzasse sulla cerealicoltura per ottenere l’autosufficienza alimentare, sfavorendo spesso le altre produzioni.
Nel dopoguerra persero di importanza molte specie, come l’azzeruolo e il melograno, a favore di altre come i kiwi e le albicocche. Negli anni ’70 e ’80, si imposero nuove modalità di gestione e conduzione dei frutteti, nuove tecniche per gli impianti, la raccolta e la conservazione. Tuttavia diminuirono le superfici e gli addetti alla coltivazione dei frutteti.
Oggi la diffusione dell’informatizzazione e di sempre più sofisticate tecnologie e il notevole miglioramento delle tecniche per la fertilizzazione e la lotta antiparassitaria, hanno comportato una nuova spinta in avanti del settore che si avvale ormai di sofisticate biotecnologie. Questi sviluppi favoriscono non solo il miglioramento genetico ma anche il recupero delle varietà autoctone che è pure finalizzato alla salvaguardia della biodiversità.
La prima occasione per recuperare delle varietà autoctone si ebbe nel 1980 con una iniziativa a livello nazionale avviata dal CNR e con la partecipazione dell’Università di Torino, per la “Difesa delle risorse genetiche delle specie legnose”, finalizzata al recupero delle specie frutticole.
Nei cosiddetti “campi collezione”, nell’ultimo decennio del secolo scorso, la Regione Piemonte promosse la valorizzazione del melo e del ciliegio piemontese e l’Università torinese, nei pressi di Chieri e di Fossano, iniziò a sperimentare diverse varietà, tra queste melo, pero e pesco.
La Regione, utilizzando anche fondi europei Interreg, ha finanziato diversi progetti e, tra questi quello con capofila la Scuola Malva Arnaldi di Bibiana, per recuperare tipologie genetiche di meli, peri e noccioli. Tra gli anni ’90 e i primi anni 2000 si sono svolti progetti con fondi regionali ed europei ed in collaborazione con Ipla, per il riordino del patrimonio degli alberi di castagno.
Il Piemonte è la seconda regione in Italia, dopo il Trentino Alto Adige, per la coltivazione delle mele che già nel IX secolo erano raccolte da piante spontanee, insieme alle pere, ai fichi, all’uva, alle castagne ed alle olive. Le mele nel 2006 risultavano censite in 129 varietà, con frutteti collocati anche in media montagna. Le superfici coltivate a pero sono invece giunte a 1300 ettari, in massima parte nel Cuneese, ma la maggior parte delle coltivazioni riguarda specie non autoctone.
La prima coltivazione del pesco nella nostra regione risale al 1402 a La Morra (Cn) e, successivamente alla fine dell’800, il pesco si diffondeva particolarmente a causa dell’introduzione di varietà provenienti dall’America. Le prime coltivazioni di albicocche risalgono ad un periodo a cavallo tra il 1400 e il 1500. Attualmente l’unica varietà piemontese è la Tonda di Costigliole nel Saluzzese per la quale è stato chiesto il riconoscimento Igp. Invece il ciliegio cominciò a prendere piede quando, agli inizi del XX secolo, prese il posto, nella collina torinese, delle viti distrutte da diverse epidemie.
Per quanto concerne la frutta secca la “Nocciola Piemonte” Igp ha sfruttato nella sua evoluzione lo sviluppo derivante dalla crescita dell’industria dolciaria Ferrero di Alba. La coltura del castagno, che affonda le sue radici nel XII secolo, vanta due Igp; il Marrone della Val di Susa e la Castagna di Cuneo.
Tra i diversi programmi e manifestazioni piemontesi di valorizzazione e promozione della frutta ricordiamo il portale Piemonte Agriqualità, l’Associazione produttori di antiche mele piemontesi e Tuttomele. Oltre a queste si sta lavorando per la diffusione della conoscenza del patrimonio genetico della frutta piemontese con pubblicazioni sul sito della Regione Piemonte in collaborazione con Università di Torino e Cnr e con la creazione di una banca dati.
Bibliografia:
https://iris.unito.it/retrieve/handle/2318/1681120/450898/Capitolo_Piemonte.pdf
https://www.vapropi.it/frutta/
https://it.wikipedia.org/wiki/Museo_della_frutta_di_Torino
http://www.museodellafrutta.it/
http://www.piemonteagri.it/qualita/media/files/Frutta_e_ortaggi_del_Piemonte(1).pdf