
Pietro Morando a Palazzo Lascaris
La sede del Consiglio regionale del Piemonte ospita 12 opere
di Elena Correggia
Le pareti della sala in cui si riuniscono le Commissioni consiliari, al secondo piano della sede dell’Assemblea legislativa subalpina, in via Alfieri 15, a Torino, sono ornate da un «corpus» di dodici opere realizzate dal pittore Pietro Morando (Alessandria 1889-1980). Si tratta di dipinti che raccontano vicende di gente semplice, che ha conosciuto la fatica del lavoro, gli stenti della povertà, la tragedia della guerra.

Convinto sostenitore dell’impegno etico dell’artista all’interno della società, Morando non indulge mai in retoriche scene di genere, ma elabora un personalissimo vocabolario visivo in cui abbonda un’umanità provata dalle avversità eppure mai sconfitta. Nelle dodici opere non c’è disperazione negli sguardi, la mitezza non accenna a una cupa rassegnazione, bensì a una forza d’animo che dischiude l’orizzonte a nuove speranze.
I. Ritorno dalla guerra

Al termine della I guerra mondiale, Morando riprende a dipingere e lo fa scegliendo il tema a lui più caro: la difficile quotidianità della sua gente.
Citazioni illustri e realtà drammatica si mescolano così nella tavolozza che dà vita a questo intenso olio su tela. Il lavoro nei campi aveva ispirato già tanti suoi predecessori, fra cui il Van Gogh della coppia di contadini intenta a lavorare la terra. Qui c’è un’altra coppia, un uomo e una donna che dissodano il terreno con l’aratro; lo fanno con ostinazione e con grande fatica. L’uomo, mutilato di guerra, ha perso l’uso delle braccia, lo strumento più prezioso per un contadino. I due però non si arrendono, le mani dell’una intervengono dove non possono più quelle dell’altro; i piedi di entrambi spiccano, sproporzionati, sgraziati eppure benedetti. Il grigiore plumbeo e omogeneo del cielo contagia le vesti e si congiunge per contrasto con l’acceso bruno rossastro della terra, l’unica fonte di vita e di speranza rimasta.
II. Il riposo del boscaiolo

Dorme il boscaiolo, un tronco come guanciale, esausto al punto da non riuscire a riporre neppure l’ascia e la sega. Il suo è il riposo del giusto, di chi ha
compiuto il proprio dovere. Lo circonda un bosco inesistente, intorno solo un ambiente spoglio, essenziale. Aleggia un’atmosfera rarefatta, quasi sospesa. Il fondale pare astratto, privo di riferimenti reali, se non fosse per il nero uccellino che spunta da un ramo, a vigilare sulla scena. Poche linee, marcate, definiscono i contorni delle persone e delle cose, in primis la netta direttrice che segna l’orizzonte. Dopo aver pienamente appreso la lezione cubista, Morando la rivisita trasferendo a questi pochi segni un’eloquenza sommessa, mai gridata, rivolgendosi allo spettatore in punta di piedi. Le campiture piatte di colore accentuano la geometrica solidità della composizione, vicina alla sensibilità dell’amico Carrà quanto a distribuzione degli spazi, ma più simile ai paesaggi urbani di Sironi nelle tonalità cromatiche scure, che sembrano impastare il cielo, la terra e il cuore del boscaiolo.
III. Incontro di giramondo

Una pallida e tonda luna fa da spettatrice al convito di un gruppo di vagabondi. Inconfondibili, gli omini di Morando: alti, ossuti, rigidi, dal naso aguzzo e il collo lungo, vestono mantelle che paiono cupole. Sono l’emblema della povertà materiale, i viandanti si siedono a un tavolo a mani e piedi nudi. Il loro desco è mesto, fatto di poche scodelle vuote ritratte come in una natura morta. Morando li dipinge con estrema delicatezza, senza indulgere in pietismi vuoti, senza dati esornativi in eccesso. C’è un tocco che fa pensare a Casorati nella scultorea solidità dei corpi, nella rigorosa scansione della scena. Ma il lirismo che permea queste forme è tutto di Morando, così come le evidenti simbologie del dipinto. È un’umanità umiliata ma redenta quella che compare in questo contesto. Come non pensare a un frugale convito evangelico? Dove guardano gli occhi scuri e gravi degli uomini se non alla colomba bianca custodita sulla mano di uno dei vagabondi?
IV. La carità di San Martino

Questa volta le virtù evangeliche trovano una esplicita citazione nell’episodio del santo di Tours che divise il mantello con un mendicante nudo. Non a caso un mantello rosso, rimando a quell’agape, ovvero a quell’amore fraterno
annunciato dalla Buona Novella. L’alfabeto di Morando riscatta così il mondo degli emarginati, dei sofferenti, di chi non possiede altro se non il desiderio di ricominciare. Quell’umanità recita una parte centrale nella commedia che l’artista
orchestra nei suoi quadri, come se celebrasse un rito laico, sacralizzato in una
perfetta corrispondenza fra la purezza del disegno e quella delle intenzioni dei suoi protagonisti. Scevro da sentimentalismi, da accenti lamentosi o di condanna per le ingiustizie del mondo, Morando si esprime con la ruvida essenzialità che accomuna tanti piemontesi. E consegna allo spettatore la bellezza di un gesto umano e quindi vero.
V. Il viandante

Da una notte senza contorni e senza fine avanza sulla strada il vagabondo. Ha i segni della fatica sul volto scavato, forse è reduce da una guerra combattuta sul fronte o forse la sua guerra si chiama fame e miseria. Non vacilla però
e prosegue saldo il suo cammino. I toni spenti delle vesti e dell’ambiente si
accendono solo nel giallo brillante del piccolo fardello. Ecco la linea spezzata
del suo bastone portato sulla spalla: è l’intuizione giusta che dà equilibrio all’insieme, interrompendo la verticalità perfetta della scena. La fissità dello sguardo del vagabondo interroga incessantemente chi lo guarda. Lui, povero in canna, diventa l’immagine ricorrente dei dipinti di Morando. Una sorta di figura simbolica, una metafora. Chi è veramente quel vagabondo? Quali sono i suoi sogni, i suoi desideri? Chi è l’uomo mendicante se non colui che in tutti i tempi, in tutte le epoche cerca una risposta al bisogno di significato della propria esistenza?
VI. Una vita

Una figura stilizzata, che veste l’astrattezza di un parallelepipedo di legno. Le
si indovina il volto coperto da un fazzoletto nero e da un lugubre abito. È una donna, probabilmente anziana, che cerca si riscaldarsi vicino a una stufa. È una vita, una delle tante del popolo che Morando conosce bene. Povera gente che vive gli stenti del tempo di guerra o di un’esistenza scandita unicamente da un
lavoro, duro e incessante, per guadagnarsi il pane. È un’umanità che non può
discettare sul Bene o sul Male, non ne ha il tempo. I suoi sono bisogni primari: trovare di che mangiare, dormire, vestirsi, scaldarsi. Eppure, proprio in questi frangenti, Morando affida ai personaggi umili la capacità di impersonare qualità umane, evocando sentimenti di giustizia e di riscatto. Non c’è rancore in questa gente mesta, bensì il desiderio che il domani sia più sereno. È una denuncia, quella di Morando, che immortala sulla tela tante mani vuote e tanti zigomi di chi ha sofferto la fame. Ma è anche l’anelito di un’umanità nuova, in grado di cambiare se stessa e il mondo.
VII. Giramondo con chitarra

Fonte di ispirazione o compagno inseparabile? Nessuno conosce il ruolo del giallo canarino che si posa sulla mano del musicista vagabondo. Ne è evidente però l’innaturale fissità, così come la rigidità che permea l’intera scena. La musica non fa vibrare il dipinto ma rimane una citazione appena, nella chitarra
in primo piano. Una chitarra senza corde non può tuttavia riscaldare l’atmosfera.
L’allegria e la voglia di cantare paiono proprio non appartenere al serio giramondo, uno dei classici omini alla Morando, dal naso lungo, alto e secco come un manichino. In questo olio su tela si aggiunge il dettaglio del copricapo a bombetta, che rimanda all’indole di un artista sognatore. Questi omini sono figure avulse da un contesto che sia in grado di suggerire qualcosa della loro vita, del loro sentire. Figure simbolo dell’umanità reietta, che riconosce un solo colore, il grigio uniforme e sempre uguale di chi vive ai margini del consesso sociale.
VIII - IX. Il taglialegna - Viandante


Stessa tecnica per i due disegni, stesso mondo popolato da gente semplice, spesso senza dimora. E nel tratteggio in bianco e nero del carboncino si acuisce il dramma degli umili. Sono loro a campeggiare sulla scena, protagonisti inconsapevoli di un travaglio senza tempo. Secondo la visionarietà composta
dell’artista un boscaiolo brandisce il proprio strumento con la fierezza di un
cavaliere medievale con la sua spada. C’è povertà sì, ma con le fattezze di una dignità che si fa compagna di strada del viandante e nutre le speranze di una terra promessa verso cui andare. Morando non racconta epiche battaglie né storiche gesta, ma l’eroismo sommesso del quotidiano.
X. Il boscaiolo

L’occhio sbarrato sull’ignoto e un’infinita sete di futuro. Questo esprime lo sguardo sgranato del taglialegna, esasperato dalla durezza di un lavoro che non conosce soste. Un dovere spietato, che ferisce quanto le lame aguzze della sega che l’uomo porta con sé. Ruvido e grigio l’abito e il contorno, così forse il suo domani. Solo un tocco di colore accende la scena: un cappellino rosso ciliegia in grado di custodire le mille idee che frullano nella testa dell’omino. Tutta la composizione è ritmata da segmenti di linee spezzate. Alla geometria rimane sotteso un altro rigore, quello etico del boscaiolo che, pur piegato
dalle fatiche di ogni giorno, rimane vigile e prosegue con coraggio il proprio cammino.
XI. Cristo dimenticato

Morando possiede la dote di saper dare un’anima a rette, piani e volumi. Quello che inizialmente può sembrare un esercizio di stile diventa con pochi colpi di matita una figura scolpita, tratteggiata con la solennità di una statua lignea. In questa geometria dei sentimenti il volto del Cristo dimenticato, con gli occhi grandi ed enigmatici, richiama la severa aulicità di certe icone bizantine. Ma l’immagine classica della madre col Bambino in braccio viene rivista e corretta. È un Dio-uomo, molto terreno, dalle mani possenti, a tenere saldamente in
braccio un uomo-bambino. Nessuna tenerezza, nessun segno di consolazione traspare dai suoi gesti né dalla sua espressione. Nella religione di Morando, che si avvicina a una sorta di socialismo utopista intriso di valori evangelici, Dio ha il volto dell’uomo lavoratore, del Giusto che condivide la fatica di ogni giorno, che sa che cosa significhi la povertà e l’umiliazione. Un Dio che passa davanti agli uomini ogni giorno, anche se gli uomini lo hanno dimenticato e non lo riconoscono.
XII. Monferrato

Un raro paesaggio, per un autore che amò ritrarre soprattutto l’uomo. Quando Morando parla delle colline natie, i rilievi del Monferrato, il grigio terreo scompare per lasciare posto al colore. Un terreno ocra, alberi verdi,
sullo sfondo fertili appezzamenti coltivati, in primo piano una casa. Non c’è sbavatura, non c’è eccesso in un paesaggio sereno e severo al tempo stesso. Mai scene troppo ufficiali, mai celebrazioni retoriche popolano il mondo dell’artista, bensì richiami semplici ed efficaci alla bellezza delle piccole cose. Questo “Pascoli con il pennello” ricorda con calibrata poesia la dolcezza insita nei ricordi più familiari, nei luoghi dove è bello rincasare perché c’è qualcuno che ci attende. Radici, tradizioni, senso di appartenenza assumono la fisionomia di una campagna e di un casolare. Il richiamo alle proprie origini si sposa con la modernità del linguaggio: nei profili dei colli c’è un po’ del “patchwork” di colori delle montagne provenzali di Cézanne mentre l’inquadratura della cascina e la composizione nell’insieme riflettono le innovazioni cubiste alla Carrà.