
Quando l’amicizia e il reciproco sostegno aguzzano l’ingegno
I ricordi sono come i pesci del lago. S’impigliano nella rete della memoria e, ogni tanto, li tiriamo in secca
di Marco Travaglini
Il corteo che accompagnò il povero Tonio al camposanto non aveva la mestizia dei soliti funerali. Un po’ di malinconia nell’aria, qualche lacrima ed occhi arrossati ma in fondo era attesa da tempo la chiusura della “pratica” terrena di Antonio Galletti. Malato da diverso tempo ormai non metteva più piede oltre l’uscio di casa e nelle ultime settimane nemmeno più giù dal letto. Consapevole che stava per giungere la sua ora aveva dato disposizioni per quello che lui chiamava “il giorno in cui staccherò il biglietto di sola andata”. Così diceva, rimasticando i modi di dire appresi in una vita “da rotaia”, da ferroviere.

Al circolo operaio aveva fatto avere i soldi perché gli amici, terminata la cerimonia, potessero ricordarlo alzando i calici in una bella bevuta. “Ricordate che se vi viene voglia di intonare qualcuna delle canzoni che cantavamo da giovani a me farà solo piacere. E anche se non potrò aggiungere la mia voce al coro e non potrò sentire se sarete intonati o meno, io sarò lì con voi, almeno in spirito”. Quando pronunciò queste parole a noi che eravamo andati a trovarlo, non trattenne le lacrime e fece venire anche a noi un gran magone. Solitamente alternava il dialetto all’italiano ma quando le cose si facevano serie il nostro Tonio pareva un accademico della crusca. Anche per la banda musicale che doveva accompagnarlo nell’ultimo viaggio aveva compilato di suo pugno il “borderò”:la marcia funebre di Franz Listz o il Requiem di Mozart, la Leggenda del Piave, Bella Ciao e, dulcis in fundo, il Silenzio.

Un bel problema poiché era impresa quasi impossibile trovare una banda in grado di eseguire tutto intero il repertorio richiesto. Così ci limitammo a concordare una terna composta da Leggenda del Piave, Bella Ciao e il Silenzio. Quest’ultimo l’avrebbe eseguito Giusto Birella, cantoniere di mestiere e trombettiere per passione. A dire il vero fu uno strazio ma a parte i vivi che,conoscendolo, non si aspettavano di meglio, il morto non ebbe da lamentarsi. Il più affranto era Adriano Arbusti detto “Giuro” per aver ripetuto migliaia di volte alla moglie, soprattutto quando quest’ultima era fuori dai gangheri quando il marito tornava a casa un po brillo la stessa frase: “Te lo giuro, Maria! Non sono ubriaco. Non ho nemmeno degnato di uno sguardo la bottiglia”.” Ma l’alito lo tradiva e allora giù mazzate sul groppone con la scopa di saggina. Con Tonio erano amici da quando, entrambi ventenni, avevano preso parte alla Resistenza. Adriano era barcaiolo e portava da una sponda all’altra del lago e da queste in Svizzera, armi e fuoriusciti. Tonio,ferroviere addetto alla manutenzione degli scambi sulla tratta tra Arona e Baveno della linea Milano-Domodossola, aveva aiutato diversi ebrei a mettersi in salvo dopo la proclamazione delle leggi razziali e nel gennaio del 1944 era salito in montagna con i partigiani.

Fu sulle colline del Vergante e sui contrafforti del Mottarone che si ritrovarono insieme a dar filo da torcere alle camicie nere e ai crucchi. Dopo la calata al piano alla fine d’aprile del ’45 erano tornati alle loro professioni. Tonio s’occupò ancora di binari ma stavolta per la tratta tra Stresa e Mergozzo, riducendo di molto il suo campo d’azione. L’Arbusti, con il cappello da marinaio ben calcato in testa, faceva la spola tra isole Borromee e terraferma con la sua “ Iolanda” , una bella barca da pesca a sei posti, dotata di un robusto motore da quindici cavalli. Si trovavano spesso al circolo operaio per una partita di briscola chiamata, mettendo sulla posta un mezzino di rosso, o all’osteria di Nando per una merenda. La loro era un’amicizia “solidale”. Ricordiamo tutti quando Tonio fu vuttima di un incidente alla stazione di Baveno cadendo dalla locomotiva diesel. Perse l’equilibrio e finì, lungo e disteso,sulla massicciata. Una brutta botta che gli era costò la frattura di un femore e della scapola sinistra. Ricoverato per diverse settimane nella traumatologia dell’ospedale S.Biagio di Domodossola ricevette ogni due giorni le puntuali visite di Adriano. Quest’ultimo, partendo alla buonora con il primo treno del mattino non senza aver fatto, la sera prima, il necessario “carico” dal signor Luigino, vinaio di Oltrefiume che commerciava una barbera monferrina di buona qualità.

Il carico consisteva in due fiaschi che rappresentavano la razione di Tonio per le successive quarantotto ore. Quando, alcuni anni dopo, toccò a “Giuro” fare i conti con il ricovero in ospedale, costretto alle cuore per una brutta polmonite, l’amico ferroviere ( ormai pensionato ) non esitò un istante a rendere visite e servizio. La casa di cura era quella di Stresa, gestita dalle suore. Raccontò che portò anch’esso all’amico un paio di bottiglioni “di quello buono”. Ma la prima volta si scontrò con un ostacolo insormontabile: l’arcigna portiera dell’ospedale stresiano, suor Clementina. Una vera e propria “guardiana di porta”, insormontabile, incorruttibile e, per di più, astemia. A differenza del nome soave e mite suor Clementina era una donnona di oltre cento chili: un mastino con due braccia nerborute. Tonio Galletti subì l’inevitabile perquisizione e il vino venne sequestrato dalla suora, incurante delle vibrate quanto inutili proteste. “Caro il mio ometto, se lo ficchi bene in testa:qui il vino non entra. Quindi, se vuol salutare il suo amico passi pure ma a mani vuote”. Quella suora era peggio della linea Maginot. Se la si affrontava di petto non c’era verso di spuntarla e ogni tentativo era destinato a mal partita. “Allora mi sono fatto furbo e l’ho aggirata”, confidò l’astuto Antonio. Concordò un espediente tattico con l’amico barcaiolo e lo mise in pratica. Adriano doveva affacciarsi alla finestra d’angolo che dava sulla scalinata del retro. Lì, con fare lesto, porgeva la boulle dell’acqua calda all’amico che, in un baleno, svitava il tappo e la riempiva di barbera. Tutto filò liscio sino a quanto, di fronte al suo insistente diniego ai tentativi di cambiagli l’acqua, secondo le religiose “ormai fredda” queste come si usa dire “mangiarono la foglia”. Gridava, il lupo di lago con una voce che non ammetteva repliche: “Ferme, sorelle. La boulle va bene così com’è. A me piace fredda”. Intervenne suor Clementina e il bel gioco durò poco. Il barcaiolo, privato del necessario carburante, si rassegnò ad un periodo di forzata astinenza, soffrendo e imprecando.

Di tempo ne passò ancora e ora, nel momento dell’addio all’amico, Adriano è affranto, abbattuto come un vecchio tronco spezzato dal fulmine. A noi, spaesato, ha confidato che si sente solo come un cane senza padrone. “ Voi siete più giovani,a certe cose non ci pensate e fate bene. Ma io, alla mia età, mi sentivo già perso dopo che è morta la mia Maria. E ora? Eh? Morto anche il Tonio, che era come un fratello, mi sento perso”. Ci ha fatto una tenerezza da non credere e l’abbiamo invitato a mangiare. D’ora in poi un poco del nostro tempo lo dedicheremo a fargli compagnia al circolo. Smazzando le carte ci parlerà del lago, dell’onda vagabonda e di Tonio. I ricordi sono come i pesci del lago. S’impigliano nella rete della memoria e, ogni tanto, li tiriamo in secca.