Quarantotto anni fa la rivolta al carcere di Alessandria
Un dramma assurdo, ancora con tante domande a cui rispondere
di Mario Bocchio
Ricordare i morti di due giorni di follia e cercare, a distanza di quarantotto anni, di dare risposta ad alcuni interrogativi rimasti ancora tali. È quanto fa la città di Alessandria, commemorando i caduti della rivolta carceraria del 1974. Proprio la data del 9 maggio coincide ora con la Giornata che lo Stato italiano ha voluto dedicare, con specifica legge, alle vittime del terrorismo e per cause di servizio nell’adempimento del dovere.
Le testimonianze dirette di quei giorni bui sono sempre state affidate ai ricordi di due noti giornalisti alessandrini, Franco Marchiaro - oggi scomparso - ed Emma Camagna, che furono coinvolti in prima persona anche in qualità di mediatori e ostaggi dei rivoltosi.
Le vittime di quel tragico episodio che sconvolse i sentimenti e le coscienze non solo di un’intera città ma di tutta l’Italia, furono sette, perché nel computo sono compresi anche due dei tre detenuti che attuarono la rivolta.
Erano anni difficili, anticiparono l’insorgere del terrorismo e nel 1974, in diverse carceri italiane, i detenuti protestarono per chiedere il miglioramento delle loro condizioni.
Quando ad Alessandria i rivoltosi fecero conoscere il loro ricatto - “lasciateci uscire dal carcere, se no ammazziamo tutti gli ostaggi” - ci furono i toni più duri e quelli più pacati, il vocabolario italiano era a disposizione con migliaia di aggettivi di deprecazione e di pietà, e fu usato.
A distanza di tutti questi anni, chi si è occupato di indagare quell’episodio, cerca sempre di spiegare se sia stato giusto dire no ai ricatti, di dimostrare perché non si può barattare la vita di uno, due, cinque uomini con la credibilità, con la fermezza di uno Stato democratico.
Eppure ancora oggi, a distanza di così tanti anni, la storiografia non riesce a concentrarsi sul rispettabilissimo dramma pubblico dello Stato, continua a pensare al dramma privato delle famiglie delle cinque vittime “della parte giusta”. Allora, in piazza Don Soria, davanti ad un carcere stretto d’assedio, si sentiva dire: “è ora di finirla, un’Italia che ha in seno criminali come quelli là dentro avrà un futuro cupo, se non si affida a mani forti e bene armate”. Ma si sarebbe dovuto dire alla rovescia: un’Italia che ospita eroi silenziosi, deboli e disarmati come fu l’assistente sociale Graziella Vassallo Giarola - che si offrì volontaria come ostaggio nell’estremo tentativo di risuscitare un gesto umano nelle belve - ha invece un lungo futuro civile. La volontà di aiutare gli uomini e la speranza di renderli migliori non possono essere uccise: neppure dalla pistola di un uomo impazzito di odio, come avvenne nel carcere di Alessandria.
Agli alessandrini di una certa età quei fatti provocano ancora oggi dolore e angoscia.
9 maggio 1974, siamo praticamente alla vigilia del referendum sul divorzio. Era noto che nel carcere ci fosse aria di rivolta da un mese buono. Tutti erano stati avvertiti, ma nessuno prese le necessarie precauzioni. Una grande folla cominciò ad accorrere attorno all’istituto, tutti attendevano angosciati. Fianco a fianco si trovavano i parenti degli ostaggi e quelli dei banditi. Ambulanze e carri funebri posteggiati in attesa, appesantivano l’atmosfera. I giornalisti, Marchiaro, Camagna e Giuseppe Zerbino accompagnati dal procuratore di Alessandria Buzio e dal suo vice Parola, cercarono di parlare per ben tre volte con i rivoltosi. Anni dopo, quando finì di scontare la sua pena, l’ unico sopravvissuto tra i rivoltosi, Levrero, contattò Marchiaro alla redazione de La Stampa, con l’intento di voler rilasciare un’intervista. Marchiaro rispose di sì solo a patto che lui avesse rivelato chi aveva fatto avere loro le armi. Non rispose, quindi l’intervista non incominciò mai.
Nel carcere di Alessandria, tre detenuti armati di due pistole presero in ostaggio sei insegnanti, il medico Gandolfi, i brigadieri degli Agenti di Cutodia Allegrini, Cantiello, Barbato, gli appuntati Aprà, Caporaso, Tula e Gaeta e cinque detenuti che si trovavano nei locali della scuola e dell’infermeria.
Asserragliati all’interno dell’infermeria insieme agli ostaggi, iniziarono una lunga ed estenuante trattativa con le autorità giunte sul posto, tra cui il procuratore generale e il direttore dell’istituto. Dopo diverse ore di infruttuosi tentativi per instaurare un dialogo con i sequestratori, si udirono alcuni spari provenienti dall’infermeria. Temendo il peggio, le autorità decisero di fare irruzione nell’infermeria sfondando la porta. Sotto una violenta sparatoria tra le Forze dell’Ordine e i rivoltosi, furono trascinati fuori, feriti gravemente, il Gandolfi e il professor Campi, insegnante all’interno del carcere. Nella confusione il brigadiere Allegrini e il vicebrigadiere Capuano riuscirono a trarsi in salvo allontanandosi dall’infermeria.
I rivoltosi, nel caos generale, facendosi scudo con gli ostaggi, riuscirono a nascondersi in uno stanzino in fondo al corridoio rendendo impossibile la prosecuzione dell’azione. Il giorno seguente, il 10 maggio, vennero convocati i familiari di due dei tre detenuti (Di Bona e Concu) nel tentativo di una mediazione che evitasse ulteriore spargimento di sangue, ma i colloqui con i parenti vennero interrotti bruscamente dal Concu, mentre Di Bona non volle ricevere la mamma e la cognata.
Fu così che nel tardo pomeriggio venne deciso di intraprendere nuovamente l’azione di forza interrotta il giorno precedente. Purtroppo l’epilogo fu tragico. Oltre all’uccisione del dottor Roberto Gandolfi, deceduto il giorno dell’irruzione, persero la vita l’assistente sociale Graziella Vassallo Giarola, che si era spontaneamente offerta di dialogare con i detenuti, il brigadiere Gennaro Cantiello, che, nonostante avesse le mani legate, portò in salvo il professor Campi durante la sparatoria nell’infermeria. Cantiello, però, tornò volontariamente indietro, tra gli ostaggi, per impedire che i rivoltosi uccidessero altre persone se non fosse rientrato nei locali dell’infermeria. L’appuntato Sebastiano Gaeta restò ucciso nel tentativo di fare scudo, con il proprio corpo, agli altri ostaggi. Dei tre detenuti che avevano inscenato la rivolta rimasero uccisi Domenico Di Bona e Cesare Concu (decisamente impegnato sulle posizioni di Lotta Continua), sopravvisse Everardo Levrero.
Sono trascorsi quarantotto anni da quel drammatico evento ma la vicenda riserva ancora lati oscuri, a cominciare dalle domande: chi introdusse le armi in carcere, due rivoltelle a tamburo ed un coltello? I rivoltosi erano sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, come la methedrina, visto che il rivoltoso Concu, prima di morire all’ospedale, aveva gli occhi spalancati e un’espressione da esaltato? Calando la vicenda nel contesto storico, quello che maggiormente salta agli occhi è proprio la facilità con la quale le armi abbiano potuto entrare in carcere. Allora, nel 1974, si rendeva necessaria una drastica sorveglianza in proposito, possibile solo col potenziamento del personale di custodia e tutto questo rientrava nel programma più che mai irrimandabile di rinnovamento e di ammodernamento dei metodi e delle strutture carcerarie.
Ancora oggi sono in molti a chiedersi: la strage avrebbe potuto essere evitata? Attorno agli assediati si ponderavano i pro ed i contro: gli alterchi tra magistrati, funzionari e militari erano violentissimi. Per gli storici i tempi sembrano finalmente maturi per cercare di capire realmente se da parte dell’allora procuratore generale della Repubblica in Piemonte, Carlo Reviglio Della Veneria, e del generale dei Carabinieri, Carlo Alberto dalla Chiesa, fu fatto tutto il possibile per scongiurare la tragedia. C’è chi sostiene che lo Stato volle mostrare il pugno forte proprio perché alla domenica ci sarebbe stato il referendum.
Il brigadiere Gennaro Cantiello è stato insignito della Medaglia d’Oro alla memoria, l’ appuntato Sebastiano Gaeta, di quella d’Argento, sempre alla memoria.
Di Bona, il vero carnefice del gruppo, si avvicinò al povero Sebastiano Gaeta e, prima di finirlo con un colpo alla testa, gli disse: “Brigadiere, ci vediamo tra poco in paradiso”. Subito dopo, rivolse l’arma contro sé stesso, uccidendosi.