Eugenio Scalfari

Scalfari, una vita da giornalista

Il forte legame con il Piemonte, grazie ad Adriano Olivetti, l’industriale illuminato di Ivrea

Crpiemonte
7 min readJul 15, 2022

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di Mario Bocchio

Una vita al massimo, una vita affamata di curiosità, una vita da giornalista. In un secolo Eugenio Scalfari ha cambiato la comunicazione in Italia, ha introdotto il principio che non è il giornale a dover temere le incursioni della politica ma il contrario: è il giornale che detta le linee e la politica prima o poi si adatterà.

“Racconto autobiografico”

Scalfari nacque a Civitavecchia nel 1924 e presto emigrò a Sanremo dove il padre, Pietro, legionario fiumano, estimatore del fascismo dannunziano e non di Mussolini, fu chiamato a dirigere il Casinò. Nella città ligure frequenta il liceo Cassini con Italo Calvino, una profonda amicizia che durerà fino alla morte dello scrittore: “Non me lo sono mai assimilato — confessò Scalfari nel libro-racconto fatto ad Antonio Gnoli e Francesco Merlo — mai l’ho assimilato come usano gli amici di grandi personalità scomparse. Non ho fatto di Calvino morto un altro Scalfari, il mio doppio, la mia coscienza riflessa, non l’ho annesso a quel trasloco di cadavere che è tipico in Italia”. Nei primi anni Scalfari aderisce al fascismo. Scrive sui giornali universitari giovanili. Lo fa con una passione per il giornalismo molto precoce che alla fine attirerà le ire del regime. Viene espulso da “Roma fascista” per aver scritto una serie di articoli sulle speculazioni edilizie di alcuni vescovi all’EUR. Non nasconderà mai la sua militanza giovanile: “Una volta leggendo non so quale giornale, mi dissero: ‘Qui dicono che Scalfari era un fascista, un monarchico, un liberale, un radicale, un socialista, un comunista e un democristiano’. Ho risposto che non ero mai stato democristiano, nemmeno lontanamente, né comunista, anche se ho iniziato a votare per il Pci con Berlinguer. Il resto, dissi, è tutto vero”.

Giovane, nella foto da deputato, e nel 2016

Nel dopoguerra Scalfari lavorò alla la Banca Nazionale del Lavoro, presso l’ufficio estero della sede di Milano. Nel frattempo iniziò a collaborare con il Mondo e con l’Europeo. Ma anche qui la sua passione per il giornalismo gli fece perdere il lavoro: “Ho descritto in molti dettagli quello che poi mi sembrava doveroso denunciare: la complicità di alcuni politici con i vertici di Federconsorzi ed Ente Risi. È stata una vera e propria truffa organizzata ai danni dello Stato”. Ma Federconsorzi era uno dei principali clienti della Bnl e gli articoli sui settimanali di Mario Pannunzio e Arrigo Benedetti finirono per costargli il licenziamento. Un episodio importante perché da quella pausa nacque l’idea di portare in edicola L’Espresso, il settimanale che avrebbe cambiato la storia del giornalismo italiano. La nuova pubblicazione è stata finanziata tra gli altri da Adriano Olivetti. All’impresa avrebbe dovuto partecipare anche Enrico Mattei, allora ai vertici dell’Eni, ma poi non se ne è fatto nulla.

Nella redazione de “L’Espresso”

Nella decisione di chiedere finanziamenti all’Olivetti c’è una parte importante del programma politico ed economico di Scalfari. Sostegno alle forze più illuminate del Paese, espressione di un’Italia più attenta a ciò che sta accadendo nel resto del mondo, idea di un capitalismo dal volto umano, come si direbbe negli anni successivi. Politicamente Scalfari era un liberale di sinistra. Aveva partecipato alla fondazione del Partito Radicale nel 1955 e nel 1968 aveva ottenuto ospitalità nelle liste elettorali del PSI quando la magistratura lo aveva condannato a 15 mesi di reclusione per l’inchiesta Espresso sul tentato colpo di stato del generale De Lorenzo. L’Espresso, fondato nel 1967, fu certamente la prima tappa di un progetto editoriale che meno di dieci anni dopo avrebbe dato vita a Repubblica. L’idea di fondo di quell’impresa è stata raccontata dallo stesso Scalfari nel libro intervista a Gnoli e Merlo: “In un’Italia attraversata da scontri ideologici, priva della schiettezza morale essenziale alla buona politica, votata allo spreco di risorse, soggetta a al malaffare e al refrattario a ogni tentativo riformista, solo un giornale che si fosse posto come alternativa a tutto questo avrebbe avuto modo di rappresentare una nuova voce. Prima l’Espresso e poi Repubblica hanno svolto questo compito”.

Nella tipografia di “Repubblica”

L’Espresso diventa presto uno dei punti di riferimento degli intellettuali italiani: economisti come Paolo Sylos Labini e Giorgio Ruffolo, scrittori come Umberto Eco e Piero Citati collaborano con il settimanale e nel 1976 si uniranno alla squadra delle firme che darà vita a Repubblica. Il “caso Repubblica” scuote l’editoria italiana. La novità si percepisce già dal format e da una prima pagina pensata come vetrina dei pezzi più importanti del quotidiano. Scalfari è un regista-montatore, che assume due ruoli normalmente distinti. Lui è all’Espresso, sarà a Repubblica nella prima parte della vita del quotidiano: “Ho dato sempre più importanza alle mie capacità di editore che a quelle di giornalista… Sono uno che, avendo lavorato principalmente per i giornali da me fondati, non è salito in cima, ci si è seduto subito sopra”. Per questo crea quello che lui stesso definisce “un giornale di famiglia”. La formula vincente è quella che ha fatto la fortuna di tante case editrici che non sono semplici aziende e che non possono essere gestite con la logica dei tagli lineari. Al contrario, sono comunità di lavoro che hanno un equilibrio interno molto delicato e che probabilmente solo chi ama il giornalismo è in grado di capire.

Adriano Olivetti in fabbrica

Il successo di Repubblica arriva nei drammatici giorni del sequestro di Moro. Il quotidiano della sinistra riformista italiana abbraccia la linea della fermezza, del no alle trattative con le BR per la liberazione del leader Dc. Le stesse Brigate Rosse riconoscono implicitamente il ruolo del quotidiano di Scalfari ritraendo Moro con in mano una copia di Repubblica a certificare la data in cui è stata scattata la fotografia. In quegli anni Repubblica supera il Corriere della Sera nella classifica delle vendite e diventa il primo quotidiano italiano. Le battaglie di Scalfari sono certamente a favore di un’Italia più moderna e più laica. Ma si nutrono anche di contrasti cruenti e improvvisi innamoramenti dei protagonisti della politica e dell’economia. “I miei avversari sono stati numerosi e formidabili. Il primo veramente potente fu Eugenio Cefis. Uno scontro durato dieci anni e per combatterlo mi sono anche alleato con Giulio Andreotti, il diavolo. Altro acerrimo avversario è stato Bettino Craxi. Poi c’era Silvio Berlusconi, l’unico che ho sottovalutato”. Alla fine degli anni Ottanta, la battaglia di Segrate per il controllo del gruppo Mondadori-Repubblica spinse Scalfari a posticipare la data in cui avrebbe lasciato la direzione del giornale. Nel 1987 Carlo De Benedetti entra in Mondadori guidata dalla famiglia Formenton. Silvio Berlusconi entra come socio di minoranza. La battaglia per il controllo del principale gruppo editoriale italiano si conclude dopo una lunga vicenda giudiziaria. Il gruppo Mondadori è diviso in due parti. Scalfari e De Benedetti tengono Repubblica e l’Espresso. Inizia una stagione tra il direttore e l’editore che durerà anche dopo il 1996 quando Scalfari lascia la guida di Repubblica, cedendola a Ezio Mauro: “Con Carlo Caracciolo abbiamo deciso che era lui il miglior candidato a succedermi”. Durante il passaggio di consegne Scalfari ha confidato a Mauro il suo parere su De Benedetti: “Siccome era stato direttore della ‘Stampa’ gli ho chiesto quante volte avesse sentito Agnelli. Rispose che l’Avvocato lo chiamava una volta al mese. Gli ho detto: ‘Vedrai che De Benedetti ti chiamerà molto più spesso’. De Benedetti ha formato le sue idee confrontandosi con il direttore del suo giornale senza mai oltrepassare i limiti tra le prerogative dell’editore e quelle dell’editore”.

Nell’ultimo periodo della sua vita Scalfari aggiunse un’intensa attività di scrittore alle riflessioni del tradizionale editoriale domenicale. E coltiva un’amicizia senza precedenti e per molti versi insospettata con Papa Francesco. Scalfari, ostentatamente ateo fin dalla giovinezza, trova in Bergoglio un uomo con cui discutere di filosofia e senso della vita. Il fatto scandalizza, anche oltre le mura vaticane. Ma continua, nonostante le smentite e i chiarimenti della sala stampa vaticana, segno che anche al papa argentino quei discorsi non dispiacciono.

“Grand hotel Scalfari. Confessioni libertine su un secolo di carta”

L’ultima notizia degli ultimi giorni è quella di un padre di 98 anni, aiutato dalle figlie del suo primo matrimonio, quello con Simonetta De Benedetti, figlia di Giulio, storico direttore della Stampa. Solo dopo la morte di Simonetta, Scalfari sposerà Serena Rossetti, la segretaria di redazione a cui è legato da oltre quarant’anni: “Conosco perfettamente l’assurdità di questo doppio legame, so che entrambi hanno pagato un prezzo molto più alto di quello che mi ha toccato”.

Le ultime riflessioni dell’uomo che ha governato indirettamente l’Italia nella seconda metà del Novecento, guidando il Paese dalla sua scrivania di direttore, sono quelle sul fine vita, l’oltre. Lo fa nei suoi scritti filosofici, lo confessa pubblicamente con quell’ironia che aiuta a sdrammatizzare: “Non ho paura della morte, anche se so che ci sarà dolore fisico, spero sia lieve. Mi dispiacerebbe meno se arrivasse in un piccolo momento di gioia. Ad esempio, che ne so?, mentre ho in mano una fetta di pandoro, che generalmente mi è proibito dal diabete”.

Fonte: Antonio Gnoli e Francesco Merlo, Grand hotel Scalfari. Confessioni libertine su un secolo di carta, Marsilio 2021

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