Srebrenica, un quarto di secolo dopo l’orrore
Nella calda estate di guerra del 1995, cadde Srebrenica e iniziò l’ultimo massacro del secolo
di Marco Travaglini
Ripensando all’11 settembre del 2001 la stragrande maggioranza delle persone si ricordano dov’erano, chi aveva al loro fianco, cosa facevano in quegli istanti drammatici, quali emozioni provarono di fronte all’assalto terroristico alle Torri gemelle del World Trade Center di Manhattan. Pochi, troppo pochi rammentano le stesse cose pensando all’11 luglio di venticinque anni fa quando, nella calda estate di guerra del 1995, cadde Srebrenica e iniziò l’ultimo massacro del secolo.
Le vittime furono tre volte più numerose di quelle di New York, ma quasi nessuno se ne accorse. Non c’erano immagini, in quei giorni, in tv. Srebrenica, per troppi era un nome senza storia, quasi impronunciabile.Quella cittadina tra le montagne della Bosnia nord-orientale, enclave musulmana a pochi chilometri dalla Drina, cosa rappresentava? Poco o nulla, per chi non aveva nessun desiderio di sapere, conoscere.
L’Europa era al mare, la Bosnia non faceva quasi più notizia, la guerra che aveva insanguinato i Balcani pareva stesse finendo. E poi perché bisognava sapere ? Era più facile chiudere gli occhi o girare la testa da un’altra parte. In fondo tutti erano complici di quanto stava accadendo: l’Europa, le Nazioni Unite, la Nato, la civilissima indifferenza dell’Occidente. Così si lasciò che il massacro avvenisse. Oltre diecimila musulmani bosniaci maschi, tra i 12 e i 76 anni,vennero catturati, torturati, uccisi e sepolti in fosse comuni dalle forze ultranazionaliste serbo-bosniache e dai paramilitari serbi. La lapide commemorativa al memoriale di Potočari riporta una cifra “ufficiale”: ottomilatrecentosettantadue vittime. In realtà furono più di diecimila i musulmani bosniaci maschi, tra i 12 e i 76 anni,vennero catturati, torturati, uccisi e sepolti in fosse comuni dalle forze ultranazionaliste serbo-bosniache e dai paramilitari serbi.
Tutto avvenne in una decina di giorni dopo che la città, assediata per tre anni e mezzo, fin dai primi giorni del conflitto, era caduta il 10 luglio nelle mani criminali del generale Ratko Mladić. Nove anni dopo il Tribunale internazionale dell’Aja per l’ex Jugoslavia (Tpi) definì quello di Srebrenica “un genocidio”, il primo in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale. Ma da quel momento, tra omissioni e rinvii, è passato moltissimo tempo. Sono trascorsi venticinque anni, un quarto di secolo, il tempo di un fiato della storia che però è tantissimo per chi subì sopraffazioni,violenze e lutti. Insopportabilmente troppo per chi ha non si è mai rassegnato a lasciare i propri cari nell’orribile buio delle fosse comuni, rivendicando giustizia.
Ora,sappiamo. Radovan Karadžić e Ratko Mladić, i due principali boia, sono stati condannati all’ergastolo per genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra. Altri non hanno pagato per i loro crimini e, con il tempo, si tende a rimuovere,dimenticare. Restano però le tombe, il ricordo di uccisioni, saccheggi, violenze, torture,sequestri,detenzione illegale e sterminio. E’ impossibile sciogliere quel grumo di indicibile dolore. Ci sarà mai una giustizia piena?Cinque lustri dopo rimane l’amara sensazione di ingiustizia e di impotenza nei sopravvissuti e un pericoloso messaggio di impunità per parecchi dei carnefici di allora, in molti casi ancora a piede libero e considerati dagli ultranazionalisti alla stregua degli “eroi”.
Bene ha fatto don Renato Sacco, coordinatore nazionale di Pax Christi, prete coraggioso e scomodo, a rammentare le similitudini di quella vicenda con l’attualità brutale del tempo che stiamo vivendo, con l’accanimento nei confronti dei più deboli e di chi fugge da guerre e carestie, con l’assurda violenza che si consuma contro le donne. In tutti questi anni in molti ci siamo impegnati a raccontare ciò che accadde a Srebrenica affinché il grido di madri, mogli e figlie di chi venne ucciso nella città “dell’argento e del sangue” non resti inascoltato. Da anni queste donne coraggiose, durante le loro proteste non violente che si svolgono l’undici di ogni mese a Tuzla srotolando gli striscioni composti di federe ricamate con i nomi dei loro cari scomparsi, pronunciano una parola: “Odgovornost”, responsabilità. Chiedono verità e giustizia, accertamento delle responsabilità,condanne per tutti i criminali. E’ un modo per offrire voce e forza a queste donne.
Uno dei più grandi intellettuali balcanici, l’indimenticabile Predrag Matvejević, scrisse: “I tragici fatti dei Balcani continuano, non si esauriscono nel ricordo come avviene per altri. Chi li ha vissuti, chi ne è stato vittima, non li dimentica facilmente. Chi per tanto tempo è stato immerso in essi non può cancellarli dalla memoria”. Quando ebbi la fortuna di conoscere Matvejević parlammo a lungo di Mostar, dell’Erzegovina, della storia della città del ponte che unisce le due rive della Neretva, del suo sentirsi cittadino europeo. L’Europa, per lui, non era solo il futuro, ma la costruzione politica che avrebbe risolto i problemi del passato. Diceva che “i Balcani sono la polveriera d’Europa,ma restano anche il barometro di quello che è l’Europa”. Era ben consapevole dei cambiamenti, spesso negativi, ma non rinunciava a pensare che le speranze non fossero morte, contando sulle possibilità che rimanevano per un riscatto della convivenza sul delirio delle divisioni imposte da chi disprezzava la vita badando solo al potere. Immaginava un’ Europa diversa da quella che erige muri, srotola fili spinati, rifiuta l’altro senza pensare, egoisticamente, che in fondo è solo l’immagine di se stessa con più disperazione, fame e paura. Sperava di non dover più vivere l’orrore e la tragedia di Srebrenica. Per questo, soprattutto ora che anche lui ci ha lasciati, il dovere della memoria ci obbliga a non cedere le armi della giustizia e della ragione.
Le foto sono di Paolo Siccardi