Sul set di Una spina nel cuore
La stazione di Omegna stava lì, austero presidio ferroviario sulla linea Novara - Borgomanero - Domodossola, a 52 chilometri dalla città di San Gaudenzio e a 37 dal capoluogo della Val d’Ossola
di Marco Travaglini
Il tratto più antico della via ferrata, quello tra Novara e Vignale, venne aperto all’esercizio il 14 giugno del 1855 ma si dovettero attendere l’Unità d’Italia e altri trent’anni prima che venisse raggiunto il lago d’Orta e Omegna, e successivamente il capolinea ossolano, dove il treno inaugurale — sferragliando rumorosamente e sbuffando vapore — giunse il 9 settembre del 1888. Persi nella trama delle partenze e degli arrivi — che un tempo erano molti più di adesso — capostazione, bigliettaio e un paio di operai che avevano in cura scambi e binari — vivevano tra i semafori rossi e verdi,i convogli in transito, gli orari e la regolazione dei passaggi a livello. L’orologio della Stazione — puntuale, preciso e sincronizzato come sapevano esserlo solo quelli delle strade ferrate — scandiva la loro giornata e i turni. A turbare quel quotidiano tran-tran, quasi cent’anni dopo, fu la troupe diretta dal regista Lattuada che scelse proprio quella stazione per girarvi alcune scene del film “Una spina nel cuore”, tratto dall’omonimo racconto del luinese Piero Chiara.
In breve tempo la vita della stazione subì un cambiamento tanto radicale e repentino da lasciare tutti esterrefatti. Un “bel caos messo in piedi da quelli del cinema”, lo definì dal primo giorno Fulgenzio Rittuli, macchinista ferroviere che abitava a due passi, verso la frazione di Borca. Un caos che aveva scombussolato tutto. E tutti. Oltre ad aver attenzione per il proprio lavoro, i ferrovieri dovevano prestare occhio e orecchio anche per quella compagnia che aveva scelto la stazione per le riprese. Il romanzo dal quale era tratta la sceneggiatura del film, ambientato negli anni ’30, si sviluppava attorno alla trama di un giallo amoroso dove la protagonista — gran bella ragazza, dal profilo enigmatico, di nome Caterina — si destreggiava tra vari spasimanti. Tra questi andavano annoverati Tibiletti, temerario motociclista sfigurato da un incidente; il bel Guido, seduttore e perdigiorno dall’innata vocazione per le carte da gioco e le chiacchiere da caffè; Dionisotti, debosciato signorotto del luogo e, infine, il torbido e vecchio dottor Trigona.
La storia non proponeva un lieto fine e nemmeno il film che, detto con franchezza, non era proprio una di quelle pellicole che rimangono impresse nella memoria. Ma il cast era di un certo prestigio, con i collaudati Gastone Moschin e Antonella Lualdi al fianco dei quali recitavano i due giovani protagonisti:Sophie Duez,nei panni della misteriosa Caterina, e l’affascinante Anthony Delon che prestava il volto a Guido, l’impenitente giocatore di poker e tombeur de femme. Al secondo giorno di riprese, nella stazione irruppe una masnada di ragazzotti vocianti. Giovanni, dalla biglietteria, si precipitò — insieme al capostazione — a contenere quella torma urlante. Carlino, con tutta l’autorevolezza che derivava dall’essere il titolare della stazione, li affrontò con un “Alt! Fermi tutti” talmente perentorio e imperioso che ottenne se non proprio il silenzio almeno un flebile brusio. “Vi sembra questo il modo di entrare in stazione? Tra l’altro stanno girando un film e voi rischiate di bloccare tutto, facendo sprecare la pellicola al regista che ha già un diavolo per capello”. I coscritti del 1968, diciottenni con l’argento vivo addosso,erano in partenza per Alessandria dove si sarebbe svolta la visita d’idoneità al servizio militare. Partivano assieme e per la maggior parte di loro quello era il primo viaggio fuori dal paese verso una grande città. L’età e l’atmosfera goliardica dei giovani di fronte a quella avventura si potevano facilmente immaginare. La lontananza da casa e il viaggio costituivano una sorta di iniziazione alla vita adulta.
I coscritti , presi singolarmente,erano dei ragazzi spesso timidi e beneducati ma in comitiva,sostenendosi gli uni con gli altri, si trasformavano. Il bersaglio dei loro lazzi, in quel momento, erano due loro amici che erano stati “riformati” qualche mese prima, ottenendo l’esenzione dal servizio di leva per problemi di salute. “Chi non è buono a servire il Re non è buono a servire nemmeno la Regina!”, gridavano, aggiungendo i nomi dei due malcapitati sui quali si sprecavano le allusioni in merito a supposte “incapacità”. Quelle grida dovevano, secondo gli intenti, mettere sull’avviso le ragazze che prendevano il treno per Gravellona Toce da dove, con la corriera, avrebbero raggiunto le scuole superiori a Verbania. Il timore della masnada era che i “riformati” potessero approfittare dell’assenza degli “abili” durante il servizio militare per insidiarne fidanzate e amiche. Due, in particolare — Pianella e Sgarabelli — sembravano indiavolati. “Ma cos’avete? Vi ha morsi una tarantola?”, alzò la voce Carlino nell’intento di riportare un poco d’ordine. Intanto le riprese del film si erano interrotte. Ma le disavventure non finirono lì. La signorina Strizzini, ogni qual volta vedeva il protagonista del film, il giovane Delon, pensava al padre dell’attore, tirava un sospirone lungo lungo, chiudeva gli occhi e..sveniva. Il più delle volte, con encomiabile prontezza, bigliettaio e capostazione riuscivano a soccorrerla prima che crollasse a terra ma dalle ecchimosi e dai terribili bozzi che aveva in fronte s’intuiva come talvolta Melchiorra Strizzini detta “Melli” impattasse a malo modo sul selciato. Una mattina l’attore francese, informato della passione che la “signorina Melli” provava per il genitore, ebbe l’insana idea di regalarle una foto del padre con dedica. La signorina agguantò la foto e vista la firma di Alain Delon se la portò al petto tenendosela stretta che più stretta non si poteva. Fu un attimo: strabuzzando gli occhi svenne sui binari una decina di minuti prima del passaggio dell’accelerato delle 8,40 per Domodossola. Rigida come un baccalà, impegnò a fondo le energie di Giovanni e Carlino che — per le spalle e per i piedi — dovettero sudare non poco per portare al sicuro la svenevole signorina che non era esattamente un fuscello con i suoi centodieci chili per un metro e sessanta scarsi d’altezza. Comunque, i due ferrovieri, trattenendo a stento tra i denti i più irriferibili pensieri, riuscirono nell’impresa, fulminando con lo sguardo l’inconsapevole protagonista del film che stava lì, muto e imbambolato. “Ma, caro il mio signor Antonio” sibilò il capostazione, “cosa le è venuto in mente di omaggiare la Strizzini con quella foto? Quella lì già ne fa una malattia della presenza di un Delon che, ogni tre per due, sviene di botto come se assistesse alla vista della Madonna, e lei pure una foto di suo padre con dedica le regala? Ma, per favore..”. L’incidente bloccò anche quella volta le riprese sul set per un paio d’ore. Il tempo venne utilizzato dall’intera troupe per una pausa a base di panini e caffè. Ai generi di conforto ci pensava Turiddu, verduriere ambulante nativo di Sciacca ma residente sull’altra sponda del lago d’Orta, a Pella. L’intraprendente siciliano aveva tappezzato il suo Ape Car con dei grossi cartelli scritti a mano. Si leggeva: “Omegna è il cinema”, “Viva i film sul lago d’Orta”, “Viva la frutta e la verdura di Turiddu. E anche i panini!”. Sì era autonominato “fornitore ufficiale della troupe”. Era stato il regista, incautamente, ad incentivarne l’autostima, affermando che “sì, i panini erano buoni”. Turiddu disse a tutti che era stato il “signor Lattuga a mettergli addosso i gradi”. E pazienza se colui che aveva il delicato compito di portare la storia “dalla carta allo schermo” si chiamasse Lattuada e non Lattuga. Panini, bibite fresche, frullati di frutta e verdura fresca comparivano d’incanto dal frigorifero che Turiddu aveva montato sul cassonetto dell’Ape, facendo concorrenza al bar sotto la pensilina del binario numero uno. Alle proteste del proprietario dell’esercizio ospitato nei locali della stazione rispondeva che “gli affari sono affari”, aggiungendo in siciliano “U lupu di mala cuscenza comu opera accussì penza” ( che, tradotto, suonava più o meno così: “Il lupo disonesto pensa degli altri ciò che potrebbero fare a lui”). Ovviamente il barista, quando venne a conoscenza del senso della frase, s’arrabbiò urlando “a me disonesto non l’ha mai detto nessuno, capito??”. Ma il clou veniva raggiunto quando faceva la sua comparsa in stazione la signorina Olimpia. Avvenente impiegata presso l’ufficio del Catasto di Novara, aveva scelto il treno per i suoi quotidiani viaggi tra il suo paese affacciato sul lago d’Orta e il capoluogo di provincia, circondato dalle risaie. Grande fu il suo stupore nel vedere quel bel ragazzo che riconobbe come uno dei protagonisti delle cronache rosa che leggeva, con una certa avidità durante le sedute dalla signora Bruna, “coiffeuse pour dame” in via Cavallotti.
Lo stupore fu ricambiato, anche con una punta di piacevole malizia, da tutta la componente maschile della troupe che non rimase insensibile al fascino della bella impiegata. Olimpia era alta, slanciata e dotata di un “personale” di tutto rispetto. Era difficile non rimanere colpiti dalla sua prorompente e vitale presenza. Andreino, aiuto operatore in seconda, nel seguirne il passo ancheggiante finì per sbattere la testa contro una palina che reggeva il cartello “Attenzione! Vietato attraversare i binari”. S’accasciò senza un lamento, mantenendo sul volto uno sguardo inebetito. Gli altri, sganasciandosi dalle risate, infierirono sul malcapitato: “Eh,Andreino. Sei stato colpito dalla signorina?”, “Merluzzo d’un merluzzo, guarda dove vai!”. Ma non fu l’unico a mostrare un debole per Olimpia.Rinaldo, ispettore di produzione, era già cascato due volte sui binari e a Giovanni Tullipan, l’aiuto regista, era andata di traverso l’acqua che stava bevendo,rischiando di soffocare. Il protagonista del film invece, con molta professionalità, non si fece distrarre e si limitò a regalarle una sua foto ( non del padre, questa volta..) con tanto di dedica ( “Ad Olimpia, con afetto e amicissia”), tradendo una scarsa dimestichezza con la lingua italiana. Le riprese durarono diversi giorni e spesso, Bortolino di Borca, habituè del bar della Stazione e a suo dire “cinefilo di rango”, ingaggiò delle lunghe dispute con lo sceneggiatore, tal Lucibelli, che nel cognome più che nel fisico ( lui era magro e allampanato, l’altro era piccolo e grassottello) ricordava il dottor Torinbelli, medico del dispensario dell’Ospedale “Madonna del Popolo”. Tra i due le discussioni degeneravano in scontri dai toni accesi e aspri. “ Ma lo capisce che le riprese vanno fatte diversamente e che la storia che ha messo in piedi fa acqua da tutte le parti”,inveiva Bortolino con il viso paonazzo. Aggiungendo la frase alla quale teneva più di ogni altra: “Io, caro Lei, me ne intendo di cinema. E Lei, se lo lasci dire, più che uno sceneggiatore sembra un venditore d’angurie”. Le repliche del Lucibelli erano veementi: “Ma stia zitto, per favore. Non mi faccia perdere tempo, chiuda quella ciabatta e ci lasci lavorare che non siamo venuti qui a batter la fiacca e nemmeno a farci prendere per il naso da uno come lei”. A onor del vero il termine che usava nel concludere la frase non era esattamente riferito al naso, ma tant’è. Contraddirlo non era buona cosa. Bortolino, fermamente intenzionato ad esercitare il diritto all’ultima parola, cercava di coinvolgere nella discussione anche il bigliettaio,Giovanni Paneo. “Lei, signor Giovanni, che è uomo di buone letture e che ama il cinema, provi lei a far capire a questo testone come stanno le cose”. Giovanni, oltre ad essere una gran brava persona era anche piuttosto riservato e non aveva nessuna intenzione di farsi trascinare nella polemica, allontanandosi con la scusa di una telefonata urgente alla stazione di Pettenasco o a quella di Crusinallo. A quel punto Bortolino, scuotendo la testa, se ne andava mormorando frasi del tipo “Se vuol sbagliare, libero di farlo, quel balengo. Io un film dove ci lavora quello lì non vado certo a buttar via una lira per vederlo”. Il regista, a fronte di quelle discussioni e della perdita di tempo, s’accasciava affranto sulla sua sedia. Gli capitava spesso di pensare al perché erano proprio finiti in quel posto a girare a girare il film. Il capostazione e gli altri che lavoravano in ferrovia erano persone a posto ma attorno a quella stazione ne giravano di ben strane e originali per non dire matte. Una di queste faceva il macchinista ferroviere. Per esigenze cinematografiche era stata “arruolata” (grazie alla gentile concessione delle FFSS) la “regina delle locomotive”. La possente “685” che i ferrovieri chiamavano, familiarmente, “Grillo”, aveva onorato le strade ferrate per molto tempo,svolgendo un prezioso ruolo nella trazione dei treni viaggiatori sulle linee principali delle Ferrovie dello Stato. A seguito dell’elettrificazione della maggior parte dei tracciati e all’introduzione della trazione diesel su quelle non elettrificate ( come la Novara-Domodossola), tra la fine degli anni ’50 e i primi ’60, il suo impiego venne via via ridotto, fino all’esalazione del suo ultimo respiro di vapore a metà degli anni ’70. Ma la “regina” restava pur sempre la “regina”,meritava rispetto e andava maneggiata con cura. Il macchinista Fulgenzio era l’unico abilitato a manovrarla e, il giorno prima del termine delle riprese, chiamato al telefono dalla stazione di Novara, scese dalla locomotiva ormai in pressione e s’avviò verso la biglietteria per rispondere alla chiamata. Il macchinista, commettendo un imperdonabile errore, non inserì il freno manuale e, complice la leggera pendenza, il “Grillo” iniziò a muoversi. Se ne accorse l’aiuto regista, che lanciò l’allarme. Ma ormai era tardi. La locomotiva sbuffando s’incamminò, sola soletta, senza conducente,verso Pettenasco. Fortunatamente il suo movimento era così lento che i ferrovieri, manovrando convulsamente un carrello a pompa trolley,la raggiunsero poco prima della stazione del paese vicino. Lo spavento fu enorme e Fulgenzio, per riparare all’errore che poteva trasformarsi in tragedia, offrì da bere a tutti. E tutti bevvero, cogliendo l’occasione per festeggiare anche la fine delle riprese. Un anno dopo, la pellicola uscì nelle sale cinematografiche ma non a Omegna. Sugli schermi del “Sociale” e dell’Oratorio, le immagini de “Una spina nel cuore” non vennero proiettate. Colpa della distribuzione, certamente. Ma forse anche, come sentenziò il bigliettaio, perché “quel film l’avevamo già visto in diretta, proprio mentre lo stavano girando”.