Re e il santuario della Madonna del Sangue in Val Vigezzo

Sull’aria della “formica rossa” tra osterie e vecchie balere della Val Vigezzo

Uno dei più fortunati romanzi di Benito Mazzi, giornalista e scrittore vigezzino, s’intitola proprio “La formica rossa”

Crpiemonte
5 min readJun 20, 2021

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di Marco Travaglini

“Si aggiustó la barbonica sulle ginocchia, regolò le cinghie e partí, sparato con La formica rossa, trascinando tutti nel canto all’infuori del Gianí che, per il casót, non ricordava piú chi avesse fatto in prima mano cinque e uno sei e uno sette..”. Uno dei più fortunati romanzi di Benito Mazzi, giornalista e scrittore vigezzino, s’intitola proprio “La formica rossa”, dal titolo della canzone che rappresentava un vero e proprio cavallo di battaglia per chi suonava nelle osterie e nelle feste popolari della Val Vigezzo, la “valle dei pittori” al confine con la Svizzera.

Benito Mazzi

Erano gli anni dell’immediato dopoguerra, i tempi in cui “la furmìa rusa la rampia sù pal mùr, cun la camisa cùrta la mustra tùt ul cùl”. Vigezzo, con i suoi sette comuni che si distendono da Druogno a Re, è la patria di Benito Mazzi, il luogo dell’anima dove da sempre raccoglie gli spunti per le storie, dal “Piano delle streghe” a “La formica rossa“, “La valle del miracolo”, “La ragazza che aveva paura del temporale“, solo per ricordare alcuni titoli dei suoi innumerevoli lavori. Scrive bene, Mazzi. E inchioda il lettore, pagina dopo pagina, a queste storie di confine, su quest’altipiano stretto tra le montagne sul crinale della frontiera tra il Piemonte e il canton Ticino della Confederazione Elvetica.

Lo scrittore vigezzino

Ma “La formica rossa” é molto più di un romanzo: è l’autobiografia dell’autore, la storia di una comunità, delle sue tradizioni e della cultura di una valle alpina, un atto d’amore per la sua gente e quel dialetto così espressivo e colorito. Quando nelle vallate alpine e nelle campagne imperava la miseria anche le volpi affamate si spingevano alle porte dei paesi e “abbaiavano” come cani. Era il tempo, per dirla con Mazzi, in cui“ i più fortunati tra gli uomini avevano il posto in ferrovia, nella Vigezzina che dal capoluogo ossolano raggiunge Locarno, o si seccavano i polmoni a oncia a oncia nei forni a Domodossola; agli altri non restava che dire sì ai mercanti di boschi e rompersi la schiena dietro le teleferiche e nei canaloni a inviar giù bore, con la socia della ranza sempre lì pronta a tirargli lo sgambetto”. L’incidente mortale per i boscaioli era sempre in agguato e bastava una piccola disattenzione per rimetterci la pelle. “Chi aveva ancora energie da spendere– scrive Mazzi –alla festa tagliava il fieno nei prati e di notte viaggiava di contrabbando coi canarini (la guardia di finanza, ndr) dietro a soffiargli sul collo. A vangare, seminare e regolare la magra campagna provvedevano le donne. E anche alle bestie. Le donne e i vecchi. Con la rela che girava c’era poco da sfogliar verze”.

Una vecchia cartolina di Re

Con la fiacca che c’era non era proprio il caso d’essere ottimisti e occorreva stringere la cinghia e anche i denti. La capacità narrativa di Mazzi anima una folla di personaggi che irrompono nelle vicende con quel modo di parlare e di prendere la vita di tutti i giorni che affascina, coinvolge, fa pensare. In questo suolessico famigliare s’incontrano la maestra Lina, mamma dell’autore, l’Albért — suo padre — e il fratello Lauro, insieme a quell’umanità varia del Cicia, l’Andre, il Luganiga, il Jepe, il Gianca e la Gianna, il Giampi, il Fede e tutti gli abitanti di Re, il paese del Santuario della “Madonna del sangue”, l’ultimo comune prima del confine di Ponte Ribellasca con il canton Ticino. Benito Mazzi — giornalista, narratore e saggista nato proprio a Re nel luglio del 1938 — ha pubblicato per le più importanti case editrici decine di libri ed è tradotto in diversi paesi europei e negli Usa. Il suo legame con la valle dove è nato e da sempre abita è stato il filo conduttore di gran parte delle sue storie, come nel caso di “Fam, Füm, Frecc. Il grande romanzo degli spazzacamini”, edito da Priuli & Verlucca. Tra l’altro è l’autore di alcuni libri sul ciclismo (“Palmer, borraccia e via”,” Morello, la fugascìna e la febbre del Giro”,” Coppi, Bartali & Malabrocca”, “Kubler,Koblet, croci torti e pianezzi” )molto belli e appassionanti. Il tempo dell’infanzia e dei ricordi, della “formica rossa” suonata nelle osterie e nelle balere, passa e lascia una punta d’amaro anche in Mazzi quando riflette che“..ne erano passati di anni, eppure sembrava ieri il tempo delle elementari. Com’era mutato il paese!. Da bocia mi vergognavo di chiamare mio padre in italiano, mi vergognavo del suo vestire in ordine, con cravatta e colletto inamidato; ora a vergognarsi era chi parlava in dialetto, chi indossava le braghe alla sbof di fustagno… La Svizzera coi suoi franchi aveva profondamente modificato uomini e cose… La gente, invece di godere assennatamente del nuovo benessere, non ne aveva mai a basta, s’affannava dietro qualcosa di indefinito, di irraggiungibile, era inquieta, fredda come le case, non avvertiva più il piacere, la necessità di stare unita come quando abbaiava la volpe…”.

Una vecchia edizione de La Formica Rossa

E allora, non potendo rovesciare la clessidra e tornare indietro nel tempo, leggendo e rileggendo “La formica rossa” si può almeno immaginare quel mondo, apprezzandone i valori che saranno stati anche semplici ma certamente sani e genuini.

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