
Tra briscole e tempeste
Quando il cielo lacrimava e sul lago soffiava quell’arietta fresca che intirizziva, la passeggiata sul lungolago verso la Villa Branca finiva immancabilmente davanti alla porta di Oreste dove ci attendevano le sfida a briscola e tresette
di Marco Travaglini
Oreste era conosciuto anche come Il Tempesta, soprannome guadagnatosi perché amava spingere la sua barca a remi tra le onde del lago quando infuriava la bufera, infischiandosene dei rischi. Un brutta sciatalgia e i tanti reumatismi rimediati nel far la spola tra le due sponde del lago Maggiore e le isole, gli impedivano di stare troppo in piedi. Con il pretesto di andarlo a trovare per tenergli su il morale ingaggiavamo con lui delle tremende sfide all’ultima mano.

“ Amici miei, sapeste che patimento dover star qui recluso. Per uno come me che non trovava mai terraferma e che fin da piccolo stava con la faccia contro vento, star qui costretto tra seggiola e divano, tra poltrona e letto, è proprio una gran brutta cosa. Quelle volte che non sento il cambio del tempo e riesco a metter il naso fuori dall’uscio, è come se fosse una Pasqua fuori stagione “. Ogni volta, prima di tirar fuori il mazzo delle carte dal cassetto, Oreste sgranava il suo rosario di lamentele. Bastavano però due o tre partite per far sì che dimenticasse acciacchi e malanni.

Faceva smorfie, imprecava, sbatteva le carte sul tavolo. Non nascondeva l’ira o la gioia, a seconda di come gli “giravano” le carte cambiava umore. Amava quei giochi, vantandosi di essere un grande esperto. A volte teneva delle vere e proprie lezioni. “ Guardate bene. Il mazzo con cui stiamo giocando è composto da 40 carte di 4 diversi semi. Ma c’è una grande varietà nel disegno. In alcune regioni sono diffuse le carte di stile italiano o spagnolo, con i semi di bastoni, coppe, denari e spade e con le figure del fante, del cavallo e del Re. In altre si usano le carte con i semi francesi . Sono cuori, quadri, fiori e picche, con le figure del fante, della donna e del Re. Ecco, sono proprio queste che stiamo usando per la nostra partita “.

Si esprimeva con cognizione di causa, da vero esperto, in un italiano corretto e persino raffinato. “Fate caso a queste. Sono carte bergamasche, tipicamente nordiche. Hanno caratteristiche in comune con le figure dei tarocchi lombardi. L’asso di coppe si ispira alle insegne della famiglia Sforza “. Era capace di andar avanti così per un bel po’ se non cambiavamo discorso. E allora raccontava le sue avventure, partendo sempre da quella volta che aveva portato sull’isolino una contessa ( omettendo di dire chi fosse, precisando “sapete, io sono una persona discreta e non mi piace far nomi” ) che per tutto il tragitto continuò a fargli l’occhiolino.

Immaginando una qualche complicità e una sorta d’invito, appena toccato terra, tentò di abbracciarla, guadagnandosi una sberla tremenda. “Mamma mia, che botta mi ha dato! Cinque dita in faccia e il segno della mano stampato. Ero diventato rosso come un tùmatis, un pomodoro; e sono restando lì a bocca aperta, come un baccalà “. “ Ah, cari miei ragazzi, se beccavo quel maledetto Carlino dell’Osteria del Peso lo facevo nero come il carbone “. Quella storia l’aveva raccontata un infinità di volte ma, per non contraddirlo, ci fingevamo interessati e lo incalzavamo con le solite domande (“Come mai, Oreste? Cosa c’entra questo Carlino?”).

Lui s’infervorava. “Cosa c’entra quella carogna? C’entra che se l’avevo tra le mani gli davo un bel ripasso. Lo pettinavo per bene quel mascalzone. Mi aveva assicurato che la contessa era una che ci stava, che gli piacevano i barcaioli. Mi disse che se gli fossi piaciuto mi avrebbe fatto l’occhiolino. E me l’aveva fatto, boia di un ladro; altro che se me l’aveva fatto. Ma era per via di un tic nervoso. Altro che starci! Sembrava una iena. E quel saltafossi lo sapeva, capite? Lo sapeva e mi ha tirato un brutto scherzo”. Sbollita la rabbia per quella brutta figura che ormai faceva parte dei ricordi, ricominciava a giocare, picchiando le carte sul tavolo con veemenza. Oreste abitava in una casa che dava su via Domo. Dalla parrocchiale e da largo Locatelli si scendeva verso l’abitazione passando da una viuzza stretta, tortuosa, lastricata a boccette che finiva nella piazzetta. Lì, al numero 12, in una casa piuttosto bassa e col tetto in piode, stava Il Tempesta.

A due passi dalla cappelletta che si diceva fosse stata eretta come ex-voto per la liberazione dalla peste. Sotto l’arco s’intravedevano ancora gli affreschi raffiguranti la Madonna con il Bambino e ben due coppie di santi : Giuseppe e Defendente, da una parte; Gervaso e Protaso dall’altra. Era lì che la povera Marietta posava il cero nei giorni in cui suo marito, quel matto di Oreste, metteva in acqua la barca incurante del “Maggiore” che spazzava le onde, gonfiando minacciosamente il lago. Quel soffio d’aria poteva durare fino a tre giorni d’inverno, spirando da nord est lungo l’intero asse del Verbano con forza e potenza, creando notevoli onde. Ora che Marietta era passata a miglior vita era Oreste a dare qualche soldo a Cecilio, il sacrestano, perché non si perdesse quell’abitudine che diceva, sospirando “ in fondo, mi ha sempre portato bene”. Le giornate più uggiose un tempo le passavamo in uno dei rioni più antichi di Baveno, da Oreste.

La finestra della stanza dove giocavano a carte s’affacciava sulla casa “Morandi”, edificio settecentesco di quattro piani con scale esterne e ballatoi. È sempre stato l’angolo più apprezzato dai pittori e dai fotografi. In molti, in Italia e all’estero, hanno affisso sulle pareti di un salotto un acquerello, una china o più semplicemente una foto incorniciata della casa Morandi. Segno inequivocabile che da lì è passata davvero tanta gente. E chissà se alcuni di loro non abbiano trovato anche il tempo per incrociare le carte con Oreste.