Abdon Pamich medaglia d’oro alle Olimpiadi di Tokyo nel 1964

Un olimpionico nella Giornata del Ricordo

Abdon Pamich, medaglia d’oro nella marcia a Tokyo nel 1964, è nato a Fiume e ha conosciuto la tragedia delle Foibe e dell’esodo giuliano-dalmata

Crpiemonte
5 min readFeb 7, 2022

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di Pino Riconosciuto

“Questa corsa ha un valore che va al di là degli aspetti tecnici, pure importanti. Permette di sfogliare pagine dolorose di un libro che devono rimanere nella memoria di tutti noi e delle nuove generazioni”. A parlare è Abdon Pamich, siamo nel 2016 a Roma. Pamich è una leggenda dell’atletica italiana, è stato campione olimpionico ed europeo, nel 1964 a Tokyo vinse l’oro nella 50 km di marcia, sconfiggendo l’antagonista, Paul Nihill, un ferroviere londinese, e con lui anche la colica intestinale che lo stava bloccando lungo il percorso. E’ stato 40 volte campione italiano di marcia su varie distanze.

Quel giorno Pamich parlava non solo perché è un immenso marciatore, ma soprattutto perché è nato a Fiume nel 1933 e ha vissuto il dramma della sua cittadina, dell’Istria e della Dalmazia nell’immediato dopoguerra. Per questo l’avevano chiamato come testimonial della “corsa del ricordo”, organizzata per celebrare la “Giornata del Ricordo”, il 20 febbraio, che commemora gli eccidi delle Foibe e l’esodo delle popolazioni Giuliano-Dalmata. “La storia più la si diffonde e meglio è”, sostiene Pamich, che quella tragedia non ha mai dimenticato e ha sempre cercato di raccontare e far conoscere il più possibile.

Profughi

In una intervista a Repubblica, nel 2018, Pamich racconta della sua Fiume, l’odierna Rijeka, in Croazia. Una cittadina mitteleuropea passata al Regno d’Italia nel 1924 dopo una lunga contesa con il costituendo regno di Jugoslavia. ‘’Era una città piccola ma industriale, cosmopolita”, ricorda Pamich. “Amata dagli ungheresi, dai cechi, dai tedeschi, dagli austriaci. E poi c’erano gli italiani, che erano detti ‘regnicoli’, perché venivano dal Regno. Si viveva d’amore e d’accordo: a scuola con me avevo degli ebrei ungheresi, che, ci tengo a specificarlo, non erano certo ghettizzati. E poi bastava una generazione per sentirsi fiumani. Ricordo molti impiegati, funzionari, che venivano dal Sud Italia. Ci mettevano poco a impregnarsi di quel sapore mitteleuropeo che aveva la città’’.

Poi arriva la guerra e alla fine del conflitto, i partigiani comunisti del maresciallo Tito con le ritorsioni, i rastrellamenti, le esecuzioni, le deportazioni e le foibe, profonde fenditure nel terreno in cui venivano gettate le vittime. Migliaia e migliaia di morti. L’aria si fa pesante, il rischio è alto e la stragrande maggioranza degli italiani preferisce la fuga verso l’Italia. Quando lo zio di Abdon viene arrestato e poi rilasciato, la famiglia Pamich capisce che è ora di andare via. Prima il padre si sposta ad ovest in cerca di lavoro, poi tocca a Giovanni e Abdon: ‘’Avevo 14 anni nel 1947, con mio fratello decidemmo di fuggire. Per gli italiani si era fatta troppo difficile la situazione, dovevamo andar via. Era settembre, un ultimo giorno nel nostro mare e poi la fuga, in treno. Solo che una parte di questo doveva finire a Trieste, l’altra tornava a Fiume. Noi stavamo nella seconda, scendemmo precipitosamente quando ce ne accorgemmo. Ricordo il freddo di quella notte nel Carso, eravamo vestiti leggeri”.

Il plurimedagliato Pamich: primo piano

Pamich racconta delle difficoltà del periodo, ‘’ci sentivamo stranieri in patria, anche perché la situazione politica era tesissima, c’erano le elezioni del 1948. Noi venivamo etichettati come fascisti, ma sinceramente mio padre non aveva mai preso neanche la tessera del partito’’. Abdon viene ospitato per un anno nel campo profughi di Novara, patisce il freddo e gli stenti, le risorse erano quelle che erano, lenticchie e riso da mangiare, un sacco con le foglie del granturco come giaciglio. Riesce poi a ricongiungersi con l’intera famiglia a Genova.

Da lì parte la sua seconda vita, quella da sportivo, culminata con la medaglia d’oro a Tokyo e l’ingresso nella leggenda dello sport italiano. Ma non dimentica certo la prima vita, quella di Fiume, e l’esodo che l’ha portato lontano dalla sua cittadina. Pamich collabora con la Società di studi fiumani e quando riesce, nonostante l’età avanzata, partecipa alle tante commemorazioni che la comunità degli esuli dalmati e giuliani organizza in tutta Italia. “Faccio anche il testimone in molti istituti scolastici, quando posso”, racconta all’Agi nel 2019.

Pamich oggi

“In genere mi ascoltano anche perché parlo poco per non stancare i ragazzi e non distogliere la loro attenzione. Però devo dire che vedo ancora tanto disinteresse. Oggi ci rimane il valore del ricordo. Fiume è la mia città della memoria e il mio compito, così come quello delle generazioni future, è quello di tutelarla e fare in modo che non finisca tutto con noi anziani. Noi che stiamo scomparendo, cerchiamo di spingere gli altri a ricordare, anche con la comunità degli italiani a Fiume. Abbiamo combattuto molto per fare in modo che si parli della nostra storia. Non voglio certo che Fiume torni all’Italia, sarebbe un’utopia, ma che almeno si riconosca quello che è stato”.

La trionfale marcia olimpica

Pamich parla di Fiume per evitare che tutto venga dimenticato: “Disinteresse e tanta ignoranza. Alcuni dei mali di oggi, per me, sono questi. E l’antidoto è uno solo: la memoria, da conservare e promuovere. Perché quando si nascondono la storia e i fatti, con la scusa delle ideologie che oltretutto ci hanno rovinato, siamo messi male. L’unica cosa che ci salva, in certi casi è il ricordo, da tramandare di padre in figlio. Sempre”.

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