Una lingua e i suoi poeti, da Costa a Baudrìe e Brero
“Il piemontese deve essere elevato al rango di lingua e non solamente utilizzato in modo minore e in ambiti ristretti alle facezie popolari”
di Mario Bocchio
Già a fine Ottocento inizia a emergere un fattore che via via si ingigantirà sempre dipiù. Autori come Arrigo Frusta rivendicano: non si sentono più al sicuro come piemontesi in Piemonte, sentono l’arrivo dell’italiano e Torino declassata a provincia di confine come minacce alla loro identità. Ancora sentono la forte necessità di preparare la lingua a resistere alla minaccia: L’Aso e Ij Brandè sono riviste e giornali pubblicati per anni interamente in piemontese. Pinin Pacòt porta avanti nella prima metà del Novecento intensi studi filologici e si codifica con maggiore precisione grafia e grammatica. Questa corrente, che si può definire “della decadenza” dura ancora oggi e raccoglie tutta la produzione più elevata in lingua piemontese.
Il filone si è adattato e potenziato con i riferimenti ai fatti che hanno rapidamente deteriorato l’identità piemontese come l’Unità d’Italia, il fascismo e la massiccia immigrazione nel periodo del miracolo economico. Pacòt è stato per Camillo Brero il maestro che rivela l’allievo a se stesso. Poi Brero, classe 1926, di Druento, scomparso nel 2018, è stato poeta persino nel suo modo danzante di esistere, persino nelle sue uscite gioconde, nei suoi modi ingenui di agire: tanto ingenui da apparire a volte stupefacenti, tanto innocenti da sembrare a tratti addirittura scaltri. Nel 1949 esordì con Splùe, di cui Pacòt segnalò subito la “voce un po’ acerba ancora, ma limpida e intonata”.
Antonio Bodrero, detto Tòni Baudrìe o Barba Toni, di Frassino in Valle Varaita, è stato anche consigliere regionale del Piemonte nella quinta legislatura. È considerato una delle figure più rilevanti della poesia regionale contemporanea; i suoi componimenti hanno come tema lo spopolamento della montagna, la difesa delle culture minoritarie, la lotta sociale, l’antiprogressismo, la piccola patria alpina, l’armonia rousseauiana dell’uomo con la natura. La sua poesia ci presenta un mondo mitico, leggendario, da saga popolare, una cultura segreta, umile, repressa, in un clima tra il fantastico e il visionario, gotico, contadino, a volte sovraccaricato dall’urgenza polemica dell’autore. Nell’ambito della letteratura in piemontese nessuno come Brero ha saputo convertire con tanta confidenza la poesia in preghiera, trasformare con tanta passione la preghiera in poesia. Tòni Baudrìe ha invece riscoperto e usato nei propri componimenti parole difficili, ripulendo la lingua dall’influenza italiana per rivendicarne l’originalità. Si può ben affermare, poi, che nel secolo scorso molti sono gli scrittori piemontesi che hanno ceduto all’incanto della “favola”.
Due nomi sopra tutti: Nino Autelli e Nino Costa. È certamente un gioiello della letteratura piemontese del Novecento la prosa delle favole e delle leggende raccolte da Autelli nel suo libro Pan d’coa (pane casalingo). Un altro dei principali esponenti di tuttala letteratura piemontese è Nino (Giovanni) Costa, che si avvicinò alla poesia durante il suo soggiorno a Parigi. Con il passare degli anni si allontanò dalla cosiddetta filosofia “birichinòira” nella convinzione che il piemontese debba essere elevato al rango di lingua e non solamente utilizzato in modo minore e in ambiti ristretti alle facezie popolari.