Vent’anni senza Nuto Revelli
“…Volevo che i giovani sapessero, capissero, aprissero gli occhi. Guai se i giovani di oggi dovessero crescere nell’ignoranza, come eravamo cresciuti noi della ‘generazione del Littorio’. Oggi la libertà li aiuta, li protegge. La libertà è un bene immenso, senza libertà non si vive, si vegeta…”
di Mario Bocchio
Nuto Revelli nasce nel 1919 a Cuneo. Nel 1942 parte volontario per il fronte russo, ufficiale effettivo della 2ª Divisione alpina “Tridentina”, per affrontare la seconda battaglia difensiva del Don. Vivrà la tragedia della ritirata, prendendo parte alla battaglia di Nikolaevka. Rientrato in Italia, a partire dal settembre 1943 si unisce alla Resistenza italiana, dapprima con una propria formazione partigiana, poi entrando nella Banda Italia Libera delle formazioni Giustizia e Libertà del Cuneese.
A lunga distanza l’uno dall’altro, pubblica con Einaudi, sei libri, frutto di dure esperienze personali, di quarant’anni di caparbio lavoro di ricerca e documentazione e di appassionata tenacia per dare voce all’Italia che non conta, agli emarginati, ai dimenticati di sempre: dapprima i reduci di tutte le guerre, poi i contadini delle campagne più povere ed infine le figure femminili delle “calabrotte”.
Sono le voci dei “vinti”, un affresco minuzioso di un mondo disfatto, di un pezzo della nostra società disgregato nella sua sostanza, dipinto sempre con sensibilissimo impegno civile, con amore per la gente, con rispetto profondo per gli umili. Sono pagine impetuose, racconti di miseria, di fatica bestiale, di fame, al limite della sopravvivenza: “Mai tardi. Diario di un alpino in Russia” (1946); “La guerra dei poveri” (1962); “La strada del Davai” (1966), testimonianze di quaranta reduci della Cuneense; “L’ultimo fronte. Lettere di soldati caduti o dispersi nella seconda guerra mondiale” (1971); “Il mondo dei vinti. Testimonianze di vita contadina” (1977). Nella sua ultima opera, “L’anello forte. La donna: storie di vita contadina” (1985), insignito del Premio Grinzane Cavour nel 1986, le protagoniste sono 260 donne emarginate e coraggiose che si raccontano.
Sempre all’esperienza lacerante della guerra e della lotta di Liberazione, che, ancora, a distanza di tanto tempo interrogano e inquietano profondamente la coscienza, sono ispirate le ultime tre opere di Revelli pubblicate da Einaudi: “Il disperso di Marburg” (1994); “Il prete giusto” (1998); “Le due guerre. Guerra fascista e guerra partigiana” (2003). Pluridecorato per Valor militare e per la sua partecipazione alla Resistenza. Il 29 ottobre 1999 gli viene conferita, all’Università di Torino, la laurea honoris causa in Scienze dell’Educazione “per l’attività di narratore e di saggista, ma soprattutto per le sue capacità pedagogiche che gli permisero di far conoscere la storia della guerra e il dopoguerra nel Sud del Piemonte”.
Nuto Revelli muore a Cuneo il 5 febbraio 2004.
Il pensiero che ha caratterizzato la vita di Nuto Revelli è ben illustrato dal discorso fatto in occasione proprio del conferimento della laurea honoris causa . Il testo è contenuto nel libro “I conti con il nemico”, Aragno.
“La laurea jonoris causa che questa prestigiosa Università, e in particolare la Facoltà di Scienze della formazione mi hanno conferito, mi inorgoglisce perché premia il mio impegno di cultore della ricerca, di cultore delle ‘fonti orali’. Ma soprattutto mi intimidisce perché la maggior parte del merito delle mie indagini spetta agli autori delle storie di vita che ho raccolto, spetta ai protagonisti del mio ‘mondo dei vinti’. È in questo senso che ho deciso di dedicare il mio intervento alla mia ignoranza e al prezzo per guarirne.
Avevo vent’anni nel luglio del 1939, quando conseguii presso l’Istituto Tecnico di Cuneo il diploma di geometra. La guerra era alle porte, era sul punto di esplodere. Non per niente domandai subito di venire ammesso in un’Accademia militare — quella di Modena — per imparare quel mestiere. Altro che il geometra…Trascorsi due anni a Modena, in quella scuola severa come un seminario. Poi, con il grado di sottotenente venni assegnato al 2°Reggimento alpini, della Divisione ‘Cuneense’, la cui sede era a Cuneo, e che era appena rientrato dall’Albania.
Erano stanchi i miei alpini, dopo le esperienze non certo esaltanti del fronte occidentale e del fronte greco-albanese. Diventarono subito i miei ‘maestri’.
Io dialogavo con loro, li ascoltavo con grande interesse. Mi intimidivano. Erano disincantati, severi nei giudizi: mai trionfalisti, mai retorici. Mi aiutavano a capire, a crescere. Avevano la famiglia, avevano la casa al centro di tutto. Il loro unico sogno era una ‘licenza agricola’.
Nel luglio del 1942, con il 5°Reggimento alpini della Divisione ‘Tridentina’, venni inviato sul fronte russo.
Conservo un ricordo preciso di quanto fosse immensa la mia ignoranza di allora, nei giorni che precedettero la partenza per quel fronte di guerra. Appartenevo alla categoria dei cosiddetti ‘colti’ — avevo al mio attivo un titolo di scuola superiore e due anni di Accademia — ma a malapena sapevo dove fosse collocata geograficamente l’Unione Sovietica. Non mi rendevo conto di appartenere a un esercito di aggressori. I tedeschi vincevano anche per me, e li consideravo degli alleati preziosi. Andavo a migliaia di chilometri da casa mia, ad ammazzare o a farmi ammazzare, ma per che cosa? Per ‘la Patria’. Ma quale ‘Patria’? Quella del fascismo, o quella della monarchia, dei Savoia?
Quando si intuisce di essere ignoranti, si compie già il primo passo per uscire dal buio. Decisi di tenere un diario. Mi ripromettevo di elencare i momenti più significativi dell’esperienza che stavo per vivere, di registrare i miei stati d’animo, i miei sentimenti più intimi.
Volevo imparare, volevo capire. Durante il viaggio — tra Brest-Litowskye Minsk, a Stolblzy — intravvidi gli ebrei, quelli dei ‘campi di sterminio’, dei quali ignoravo l’esistenza. Erano una sessantina di relitti umani — donne, uomini, bambini — tutti scalzi, sporchi, coperti di stracci. Tutti marchiati con la stella gialla. Sembravano dei fantasmi. Si trascinavano lungo la nostra tradotta implorando un pezzo di pane.
Odiai i due tedeschi delle S.S. che li controllavano da lontano con i mitra spianati. E dissi a me stesso: ‘Questa è la guerra dei tedeschi, non la mia guerra’. Ero ignorante, ma incominciavo a interrogarmi, a scegliere, a capire.
Poi la vita di linea, sul Don, e nel gennaio del 1943 l’inizio della fine, il disastro.
Ricordo tutto dei giorni e delle notti della ritirata, di quell’inferno. Dirò solo che il 20 gennaio — era il terzo giorno della ritirata — nella immensa piana di Postojali, nei 25 gradi sotto zero, mi resi conto che avevo capito tutto.
La nostra colonna — trenta o quarantamila uomini allo sbando — sostava da ore in attesa di ordini. Eravamo più morti che vivi. Maledii il fascismo, la monarchia, le gerarchie militari, la guerra. Avevo capito tutto, ma troppo tardi! ‘Ricordare e raccontare’, questa la parola d’ordine che mi portai nel cuore da quell’esperienza tristissima.
Nei giorni dell’8 settembre ero a Cuneo, e se scelsi istintivamente di lottare contro i fascisti e contro i tedeschi fu perché sentivo nella mia coscienza il peso enorme di quelle decine di migliaia di poveri cristi — la maggior parte ‘contadini in divisa’ — mandati a morire per niente in quella guerra maledetta.
Furono importanti i mesi che trascorsi nelle formazioni partigiane di ‘Giustizia e Libertà’, con dei ‘maestri’ come Livio Bianco e Duccio Galimberti. In questi venti mesi diventai adulto.
Soprattutto Livio mi era vicino. Io lo aiutavo a risolvere i problemi pratici, quelli militari. E lui mi insegnava l’abc della cultura politica, e a dare un senso all’esperienza che stavo vivendo. L’amicizia di Livio era il mio ancoraggio più sicuro. Livio mi era di esempio. Livio mi aiutava a resistere, a non mollare. Nel 1946 sentii l’obbligo di gridare lamia verità. Pubblicai il mio diario di Russia.
L’informazione era vaga, insicura, per non dire inesistente. Le fonti ufficiali tacevano. E le famiglie della provincia di Cuneo che avevano perduto un loro congiunto sul fronte russo — erano circa settemila — continuavano a illudersi che tutti gli ‘assenti’ fossero vivi, prigionieri.
(…) Nel 1962, con la Guerra dei poveri, conclusi il mio discorso autobiografico. E decisi di dare una voce agli ex-soldati, a chi aveva sempre dovuto subire le scelte degli ‘altri’, ai pochi superstiti della prigionia di Russia. Pubblicai La strada del da vai.
Poi, sempre negli anni Sessanta, raccolsi le lettere de L’ultimo fronte: le lettere che i caduti ed i “dispersi” avevano inviato alle famiglie dai vari fronti di guerra, soprattutto dal fronte russo. Erano difficilmente raggiungibili quei piccoli ‘archivi famigliari’, custoditi gelosamente dalle madri, dalle spose, dalle sorelle dei caduti e dei ‘dispersi’. Bisognava acquisire quegli epistolari senza procurare nuovi traumi, nuove sofferenze. Occorreva molta umiltà, occorreva molta prudenza nel chiedere. Centinaia di lettere — l’ultima lettera inviata alle famiglie da altrettanti caduti e ‘dispersi’ e pretese a suo tempo dalla Autorità militare — le acquistai da uno straccivendolo di Cuneo, al quale l’Autorità militare le aveva cedute come carta da macero.
Eh l’ignoranza! Eh la retorica patriottarda che mascherava malamente quell’insipienza, quei misfatti. Non poche di quelle lettere le restituii poi alle famiglie per- ché erano preziose come tanti testamenti. Ma assistevo al grande esodo dalla campagna povera, all’abbandono delle aree depresse della montagna e dell’alta Langa, come risposta all’industrializzazione troppo rapida della pianura. Era un vero e proprio terremoto. Si contavano a migliaia i contadini, i montanari — giovani e meno giovani — che diventavano manovali dell’industria. Un patrimonio di forze valide, di esperienze, di mestieri, destinato a disperdersi. Con l’esodo indiscriminato, caotico, in non poche aree della nostra collina e della nostra montagna si sfilacciava il tessuto sociale, si estendeva il deserto. Raccolsi le storie di vita de Il mondo dei vinti e de L’anello forte per dare una voce a chi era costretto — ancora una volta — a subire le scelte sbagliate degli altri.
Volevo che i giovani sapessero, capissero, aprissero gli occhi. I giovani devono conoscere la società in cui vivono.
Guai se i giovani di oggi dovessero crescere nell’ignoranza, come eravamo cresciuti noi della ‘generazione del Littorio’. Oggi la libertà li aiuta, li protegge. La libertà è un bene immenso, senza la libertà non si vive, si vegeta”.